A. Romano, Anarcheologia e misantropologia. Due scienze satiriche per recuperare ciò che abitualmente scartiamo: cringe, incoerenza e xenomorfismo, Kabul Magazine, Magazine, PLANARIA – Part I – Gennaio 2023
Insegnando discipline storio-socio-etno-antropologiche, ho potuto osservare che il dibattito sul rapporto ideologico e collusivo esistente tra antropologia e archeologia è ancora aperto e immobile: un conflitto d’interessi insanabile tra discipline con relazioni strette e contigue, non avendo senso un’archeologia che non si interroga sui comportamenti e un’antropologia che non si serve di reperti, anche se avrebbero funzioni molto diverse e spesso di controllo reciproco.
Per essere più precisi, la prima fornisce alla seconda i suoi dati di fatto storici, fonti essenziali per dare concretezza agli schemi epistemologici e soprattutto alle metodologie euristiche dell’antropologia. Questa, di ritorno, garantisce, con quegli schemi epistemologici, di delimitare il campo in cui avranno luogo le interpretazioni archeologiche, garantendone così la coerenza. Coerenza di cosa? Dei presupposti stessi, che saranno riconfermati per retroazione quando, dalle conclusioni, il testo tornerà fatalmente al suo inizio: i comportamenti (unico essenziale oggetto di studio dell’antropologia) e i moventi vengono raccontati già “documentarizzati”, secondo l’effetto retorico che sovrappone tra loro le tre triadi classiche di inizio-centro-fine, passato-presente-futuro, causa-effetto-conseguenza.
L’antropologia fornisce all’archeologia la convinzione che i comportamenti, gli scopi e le emozioni dell’essere umano sottendono una filosofia con cui egli si approccia alla vita, mentre questo è vero molto limitatamente. Ne deriva che il livello filosofico, così concepito, si presenta latente, e cercandolo può essere confuso con quello religioso per il comune tratto generale e cosmogonico: così l’antropologia, dando per latente un motivo già presupposto, può chiedersi il perché degli usi e rispondersi costruendo una teoria che generalizza e fa corrispondere al principio, per esempio, di utilità qualcosa che potrebbe non avere nell’utilità il proprio principio. Da questa riconferma retroattiva dei presupposti – un gioco di tautologie –, i reperti archeologici assumono un significato. Ed è attraverso il libero gioco di associazione tra significati e significanti che si dà corpo alle fantasie ideologiche più recondite e scabrose, come accade quando si fa del cospirazionismo (non a caso è proprio l’archeologia, e più specificamente la fantarcheologia, a dare spunto a teorie del complotto).
La coerenza è di per sé un comportamento molto filoantropologico: è chiara, ripetitiva, crea un contesto di riferimento sicuro. Un comportamento incoerente è arduo da interpretare, difficilmente fa casistica, forse è inutile da capire. Una misantropologia si interessa inevitabilmente all’incoerenza, come a ogni altro comportamento non rispondente a un principio a priori o a un canone: è a suo modo una teratologia che studia casi “mostruosi” di xenomorfismo, ossia – nel senso più ampio – sperimentali (Geoffroy Saint-Hilaire ricordava, nel suo trattato sul mostro, che esso è una delle strade attraverso cui la natura sta cercando di procurarci una novità). Allo stesso modo, non-comportamenti misantropologici sono la noia, il vagare, la misantropia, l’estasi, l’ira ecc.; in pratica, tutto quello su cui non possiamo fare affidamento e di cui non possiamo essere responsabili o dar conto.
LA MISANTROPOLOGIA SI INTERESSA INEVITABILMENTE ALL’INCOERENZA
Gran parte della quotidianità delle moltitudini è composta di micro-comportamenti disfunzionali o inutili, come gesti a vuoto, amnesie, battute di spirito, tic, antiscopi o pseudoscienze di cui nessuno sentiva la necessità; poco del quotidiano ha potenzialità di reperto, gran parte degli oggetti d’uso comune sono destinati a diventare rifiuti: possiamo ancora osservare in un museo lo studio di Francis Bacon conservato come lo ha lasciato, ma non sapremo mai cosa c’era nella sua immondizia, perché non si dà archeologia dello scarto. Tant’è che gli ultimi sviluppi dell’archeologia, con il concetto di “strato”, cercano di rimediare, rendendo reperto tutto ciò che nello strato viene rinvenuto.
Pur sapendo che non potremo mai studiarle, nel senso abituale con cui usiamo questa parola (cioè pragmatico-utilitaristico), in quanto si occupano di scarto, anarcheologia e misantropologia dovrebbero trovare posto – meglio ancora che nelle facoltà di filosofia o letteratura – negli istituti Afam, poiché ci permettono di incardinare una serie di questioni complesse su cosa vogliano dire “sperimentale” e “ricerca”.
L’anarcheologia contesta il primo e più importante cardine dell’archeologia, un cardine uno e trino: che esista un principio (arché), che esista un passato e che il primo è nel secondo. Ma sappiamo che le cose sono in divenire e non c’è che una razionalità situazionale e momentanea, il tempo non ha andamento lineare e non esiste progresso necessario o regresso impossibile, essendo in atto entrambi.
Non arriviamo a citare il multiverso e la potenziale esistenza di linee temporali alternative, o l’esperimento mentale della mela in una scatola che in un tempo infinito si disintegrerebbe e poi ritornerebbe nella scatola a ciclo continuo, e neanche l’argomento per cui il tempo in sé non esiste ma solo lo spaziotempo, o l’argomento del progresso che è di per sé una credenza che si autoavvera.
Diciamo invece che il tempo, per come inteso dall’archeologia, ossia come una successione (di epoche, di civiltà, di dinastie ecc.), serve a impiantare dei concatenamenti causa-effetto tra eventi eterogenei. Se devo cercare una causa, mi è più comodo cercarla nel passato, anche se sta nel futuro, perché il passato “sta là”, si è esaurito, e stabilisce un criterio intuitivo di interpretazione universale (ma non solo il passato lascia tracce: le profezie sono le tracce disseminate nel passato dal futuro).
Stabilire il passato, cioè la sede della causa di un evento, determina le basi delle future letture dell’evento stesso: collocare una data di svolta nel flusso storico, una cesura tra epoche, genera tante polemiche tra gli addetti ai lavori perché combattono per i confini causali delle interpretazioni.
In alcuni passaggi dei suoi studi antropologici, Ernesto De Martino colloca temporalmente l’origine del tarantismo all’arrivo del cristianesimo, da cui l’importanza del tema della colpa in tali studi; ciò tuttavia è messo in discussione dall’evidenza, in altre epoche, di miti e riti simili in tutto il bacino del Mediterraneo, così la colpa cristiana sembra meno pregnante. Se nel ragionamento demartiniano mettiamo in crisi la funzione della colpa, come leggiamo la sua ipotesi – ispirata alla psicologia freudiana, all’epoca appena introdotta in Italia – secondo cui il penzolamento e il dondolamento dei tarantolati da una corda appesa al soffitto o al ramo di un albero riproduceva una reminiscenza fetale? Semplicemente salta tutto l’impianto ermeneutico che nella colpa trovava la causa e nel cristianesimo l’origine.
Essendo quella della magia un’area fortemente anarcheologica e poco archeologica, perché attiene all’esoterismo della cultura orale e all’uso del corpo, non c’erano a sua disposizione fonti o reperti da consultare per supportare la tesi che riconfermava la valenza della colpa, per questo si è dovuto servire di Freud: la psicopatologia serve a colmare quanto dell’interpretazione non torna mai, in conclusione, all’inizio. Oggi, questa carenza di testimonianze non si pone più come nel caso di De Martino, data la diffusione e individualizzazione delle registrazioni audiovisive (altro campo dell’anarcheologia: i contesti che vanno perduti), ma rimane quasi impossibile avere registrazioni integrali di numerosi riti, tra cui i celebri esorcismi, perché – in quanto comportamenti esoterici e perciò misantropologici – sono anarcheologici.
De Martino, come qualunque studioso, è costretto a trovare il senso di una evidenza, anche se non dovesse avere senso, cioè anche se la causa è “mostruosa”. Lo studioso giunge allora alla psicopatologia, cioè a una strumentazione che trasforma il comportamento in un sintomo e le sue motivazioni in una patologia,; ma che alternative ha? Non può studiare qualcosa che non c’è, quindi il senso (cioè la causa) deve esserci ed essere indagabile, al limite nella veste di rimosso (ovviamente nel passato), altrimenti non se ne può parlare.
Naturalmente non possiamo interessarci di qualcosa che non sappiamo esserci effettivamente stata. Questo è lo schema dell’argomento principale che in antropologia si usa per ridurre a casualità statistica i gruppi matriarcali: non avendo gli archeologi mai trovato la stessa concordanza di testimonianze dei gruppi patriarcali, la deduzione archeo-antropologica è stata che la società umana, per ragioni varie ed equipollenti di ordine pratico/genetico, si fonda sul modello patriarcale. Chiaramente, la funzione dell’antropologia è stabilire i parametri di riferimento per le interpretazioni, raccordandoli coerentemente con narrazioni consuete come quella del tempo lineare, dell’innata e illimitata socialità umana, della maternità, dell’utilità, della razionalità e così via: è per queste vie che nel suo passato glorioso ha inventato il “primitivo”, l’equivalente archeo-antropologico di Topolino per la Disney.
“Anarcheologia” e “misantropologia” non sono solo termini coniati dal marketing lessicalistico della cultura radicale, ma raggruppano quattro concetti fondamentali: multitemporalità e antropodecentramento la prima, desocializzazione e spinta timotica la seconda. Mettere in crisi il progresso lineare significa attentare direttamente allo status quo e alla programmazione economico-sociale, tanto quanto mettere in crisi l’antropocentrismo significa togliere priorità all’umanità e aprirci a nuove priorità tutte da decidere.L’artista Piero Manzoni posa insieme alla sua “Merda d’artista”.
Per evitare che questa perdita di delimitazione anarcheologica si trasformi in una proliferazione di categorizzazioni sottili quanto ridondanti tutte non prioritarie, la misantropologia è fondamentale, perché mette in guardia dal cercare un qualunque riconoscimento gerarchico, cosa che comporterebbe la sopravvivenza del modello coerentista e utilitarista. A differenza della gerarchia archeologia-antropologia (base del loro conflitto d’interesse), anarcheologia e misantropologia si sovrappongono, senza essere sinonimi, in una metonimia costante: l’obiettivo è finirla con il riconoscimento dell’altro, perché quando diventa un riconoscimento di massa (cioè di sistema, e tende sempre a diventarlo) si arriva inevitabilmente alla gerarchia piramidale, ai podii.
ANARCHEOLOGIA E MISANTROPOLOGIA SI SOVRAPPONGONO SENZA ESSERE SINONIMI
Accettando parzialmente le definizioni che la studiosa di letteratura russa Alicia Chudo, in tre densi capitoli, dà della misantropologia, ne aggiungiamo alcune che ci sembrano calzanti. La misantropologia prende atto che l’essere umano è un essere sociale limitatamente a certe condizioni; che la massa organizzata in maggioranza è più distruttiva dell’individuo e delle minoranze; che il percorso che ha portato l’uomo a stanziarsi come agricoltore/allevatore non è stato frutto di progresso ed è stato avversato in ogni modo, in quanto agricoltura e allevamento sono più faticosi di raccolta e caccia, ma è arrivato comunque a compiersi grazie a dispositivi identitari/autoritari; che l’aggressività dell’essere umano è meno distruttiva e pericolosa della sua attitudine a sottomettersi a un capo (Ortega y Gasset, per esempio, o anche Rita Levi Montalcini in riferimento ai totalitarismi del XX secolo), perciò il problema è l’aggregarsi dei passivi in armonie obbedienti, e non le spinte passionali dei timotici come l’irato Achille (cf. Ira e tempo di Sloterdijk), semmai le spinte timotiche interrompono/variano il ciclo di narcisismo-narcosi descritto da McLuhan.
L’anarcheologia e la misantropologia sono antiutopistiche e antiutilitaristiche, e sono interessanti perché, come sottolinea Chudo, gli antropologi hanno un bias disciplinare: non colgono i comportamenti misantropologici, come quelli fallimentari, insensati o a vuoto.
Da anni, la scrittrice Carolina Cutolo bandisce il concorso per il racconto più brutto. Di solito si tratta di scritti frutto di imperizia e ridondanza, fatti di modi di dire, frasi fatte e stereotipi. Se si hanno vecchi racconti scritti al liceo, è un ottimo inizio, altrimenti è inutile pensare di scriverne uno appositamente brutto: si può dire che sia impossibile, senza far mai affiorare un minimo di autoironia. Si può parodiare un romanzo, come fece Luttazzi con Tamaro, ma non si può imitarlo senza ironia. Al contrario, l’autore di un racconto veramente brutto è contraddistinto dal fatto di credere che sia bello, perciò non è autoironico: scrivere volontariamente male è impraticabile come sbagliare volontariamente a parlare. Magari ci si riuscirà con la concentrazione, ma se si sa parlare correttamente si tenderà a farlo in automatico.
Il “brutto”, lo “sbagliato”, sarebbe meglio dire in questo caso il “cringe”, è un ottimo esempio di oggetto anarcheologico e misantropologico, difficile da cogliere per antropologia e archeologia. I concetti di imbarazzante e grottesco, a differenza dei concetti di bello e armonioso, tendono a non seguire un canone definito; se di canone possiamo parlare in merito al cringe è a condizione che sia un canone discontinuo. Con ciò ne deriva che farne delle scuole o correnti è al momento impossibile.
Inoltre, è complicato distinguere vari tipi di cringe, così come si fa con la bellezza negli studi di estetica, poiché il cringe tende all’eteroclito, quindi all’indifferenziato come l’orda di zombie o gli onkos platonici (che appunto proliferano oncologicamente, in maniera abnorme, disfunzionale e irrazionale come tutte le particolarità prive di gerarchizzazione).
Il cringe è una sensazione che, come l’orrore o la paura, funziona da riflesso condizionato per la sua profondità e corporeità: i contenuti cringe sono solitamente quei contenuti che per attitudine siamo portati a ignorare e, a prescindere da chi siamo, guardiamo altrove per non vederli, come quando incappiamo in qualcuno che urina ai giardinetti. Guardare equivale a prendersi un piccolo piacere che giudichiamo morboso, un effetto di attrazione-evitamento, sdrucciolevole e mobile, di cui probabilmente non sappiamo cosa dire, ma che non per queste ragioni possiamo definire inesistente. Piuttosto, sarebbe appropriato dire che “piace e colpisce” (Lipovetsky) e nel sedurre e repellere sta la sua sfuggevolezza anti-canonica e anti-storica. Se una estetica del brutto è possibile facendo un ragionamento a ritroso che parte dal concetto di bello, non è possibile farlo col cringe, poiché non è l’opposto del concetto – poniamo – di edificante.
IL CRINGE, OGGETTO DI STUDIO SU CUI L’ANTROPOLOGIA È POCO EFFICACE
Il cringe, non essendo fisso, è un oggetto di studio su cui l’antropologia è poco efficace: non sappiamo come e perché i creatori di cringe operano, non sappiamo cosa è specificamente cringe, ed essendo contestuale e non sostanziale è pure difficilmente musealizzabile. Ancora una volta, non possiamo dar conto di ciò che scartiamo e ignoriamo.
Perché invece, obliquamente, è possibile farlo attraverso anarcheologia e misantropologia? Perché non sono scienze né pseudoscienze, bensì scienze satiriche.
La letteratura tendenzialmente non si occupa di cose come il sesso esplicito, la religione in chiave dissacrante, la ridicolizzazione della morte e la celebrazione della scatologia: sono le sue materie di scarto, che vengono raccolte e utilizzate da un (de)genere di letteratura detto satira. Così, se una archeologia del cringe sarebbe oziosa, un’anarcheologia del cringe è invece volutamente oziosa e non mira a essere produttiva, bensì satirica: ragiona sui cortocircuiti che hanno portato il cringe a verificarsi e, per trovare strade di ricerca nuove, non stabilisce a priori di trovare una eziogenesi generale del fenomeno con la quale altri possano schematizzarlo.
La scientificità del metodo, fatto da misurabilità e ripetibilità (Kojève parla non di ripetibilità dell’esperimento scientifico, ma più acutamente di “indistinguibilità” degli esperimenti), garantisce solo sulla controllabilità dei risultati, non sulla bontà dell’esperimento, tantomeno sulla natura ultima del suo oggetto.
Come ricorda Deleuze, a proposito di Nietzsche: la cultura serve a superare la cultura, e la scienza a superare la scienza, la definisce filosofia del rovesciamento, e questo ispira le scienze satiriche, che coniano concetti apertamente instabili pur di togliere il pensiero dalla sua zona di comfort, sbalordirlo o farlo sorridere di meraviglia, gesto fondamentale di ogni ricerca o sperimentazione che vogliono essere altro.
Bibliografia
Alicia Chudo, Misanthropology: Voyeurism and Human Nature, in «Prosaics and Other Provocations: Empathy, Open Time, and the Novel», Academic Studies Press, Chicago, 2013.
Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 2008 [1961].
Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002 [1962].
Alexandre Kojève, L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna, Adelphi, Milano, 2018.
Marcel Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003 [1945].
Peter Sloterdijk, Ira e tempo, Meltemi, Roma, 2007 [2006].
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2015 [1964].