“Se il fine del teatro è di offrire uno sbocco ai nostri sentimenti repressi, una sorta d’atroce poesia si esprime in atti bizzarri che, pur alterando la realtà della vita, dimostrano che la sua intensità è intatta e che sarebbe sufficiente dirigerla meglio. Ma anche se a gran voce invochiamo la magia, abbiamo in fondo paura di una vita che si svolga davvero
sotto il suo segno autentico”
Artaud, Il teatro e il suo doppio (p. 129)
RITMO
Per evitare equivoci inutili, diciamo subito che il ritmo è una qualità dominante di Fauno.
Sia il ritmo genericamente invocato per la comicità, o per la vita pubblica in toto, sia un ritmo musicale vero e proprio talvolta tangibile in scena come tappeto sonoro (si badi alla dicitura: “colonna sonora di Piero Umiliani”).
È anche un ritmo del dire, che ricorda altri due musicomici, Cochi e Renato, per l’inesauribile e estraniante cadenza di assurdi e paradossalità tramite il quale – se non proprio un ritmo – una ritmica musicale diventata ecolalia trascolora in comicità. È a questo livello che il comico si inventa una propria lingua, quando incontra la musicalità: Derrida nel chiosare Rousseau lo ricorda, dall’urlo deriva il canto da cui deriva il parlato. In questo caso, dall’urlo deriva un parlato masticato, paradialettale, scostumato: il linguaggio del fauno.
È infine un ritmo personale, umano, mentale che ha incessante bisogno di fare un passo avanti e uno indietro, di muoversi inciampando continuamente in un infinito limitato di ripetizioni e “standard” (in senso musicale) come in una marcia sul posto che porta lontani anni luce. Fino al ritmo quasi psicopatologico di Maurizio Milani, dove la loquacità dell’ossesso crea l’illusione che chi parla provenga da un luogo non diverso dalla discarica di un serial killer e che, se possiede un residuo di normalità quotidiana, è a corollario del proprio delirio inarrestabile, personalissimo.
PERSONA
Chiedere chi è la persona, nel senso etimologico e teatrale del termine, che Nicola Vicidomini porta in scena sembra inesatto, un voler personare e identificare troppo la cosa inscenata, quindi, “cosa” è il suo personaggio?
È appunto una “cosa”, affetta (ma non afflitta) da “masochismo grammaticale”, per usare le parole stesse di Fauno.
È ciò che resta quando un individuo è colpito da “amnesia della comunicazione” e dimentica chi è, dimentica le varie cristallizzazioni del suo Io: un ammasso urlante di voglie e bisogni, divorato dai tic e da interferenze foniche e fonetiche interne e esterne, contenuto in uno spazio scenico imparentato col teatro mentale, dove una riflessione sulla decadenza dell’occidente s’intreccia a un motivetto inestirpabile e ai gemiti di chissà chi.
È un queer polimorfo dall’identità esplosa in una deriva: mugugni e trilli: balletti spezzati: l’esaltazione che coglie tutti, pochi secondi ogni tanto, quando siamo soli in casa, eccitati da chissà quale euforia… e questa esaltazione momentanea resta in scena per più di un’ora, espandendo un breve forsener in una esperienza vera e propria.
Su questo urlo disarticolato, comico e disperante, viene addossato un che di umano: gli viene infilato un abbigliamento di base, le mutande, con qualche altro capo “casuale” che va e viene, sempre più equivoco, impersonale, umiliante. Nota: la mutanda non è in questo caso simbolo del qualunquismo medio, ma un elemento kafkiano che ospedalizza e lagherizza tutto ciò che tocca.
Trascinati da Fauno nella vertigine cosciente della sua dimensione, viene da ridere del nostro disagio: cosa c’è di più comico che ricordare al pubblico che le parole, a cui attribuisce tanto peso e senso, alla fine non sono che rumori animaleschi?
Nei recessi terminali del grammata resiste un fondo di nera demenza in cui non si distingue sillaba.
Il fatto che con Fauno si rida può denotare due approcci principali nel pubblico, quello di chi ride del comico e quello di chi ride del buffo: rido rispecchiandomi in quella inadeguatezza alienata, oppure rido di quella inadeguatezza alienata.
In questo secondo caso non si ride della propria pazzia, ma della pazzia altrui, e ciò è deplorevole, tuttavia fino a un certo punto, dato che denota a propria volta la pazzia di chi si sente – e gode a sentirsi – normale.
Più chiaramente: bisogna essere effettivamente pazzi perversi per trovare “buffa” e ridere della cosa vicidominica. Che non è mai risibile. Allegra. Confortante.
Tanto che sbuca legata da una corda, come Carmelo Bene nella stanza in fiamme all’inizio di NSDT, parodia del mago contorsionista Houdini.
La sua inadeguatezza discorsiva è la punta di diamante della bruttezza, della malattia, dello schifo, del grottesco squallore, della debolezza e della insicurezza, del disagio alla base delle sue-nostre “manie di bassezza”.
ANACOMICI
Esclusa attualmente la verticalità verso l’alto, ascensionale e perciò ridicola, quella verso il profondo rimane comica, cioè ancora seria.
In questo condominio di battutisti, nello stagno di omologazione dei comici-demagoghi, a chi cerca una misura tragica, appunto verticale, dell’esistere, superati l’arte e l’umanesimo che tendono verso l’alt(r)o, non rimane che trascinarsi nel profondo: verso il delirio. Cioè, superata l’espressione, non rimane che la patologia, quanto non è riassumibile e dicibile.
Nicola Vicidomini ha qualcosa di quei conservatori, se non proprio reazionari, senza fiducia nel progresso, che proprio non se la sentono di fare la Croce Rossa del pubblico e del sociale, e divorziano dalla comunicazione, dalla massa, dalla ciliegina della consolazione, esiliando il buon senso comune, cioè buon senso di massa, dalle proprie vite per sposare l’irrazionalismo panico.
Ci appare in scena in vincoli e a disagio. Balbetta sillabe e onomatopee, come chi ha dimenticato il parlare e addirittura l’esprimersi e diventa un contorsionista per necessità. È uno “scienziato della incomunicabilità”.
Questo è un filo diretto che porta da Nicola Vicidomini all’altro grande psicosomatico del teatro, Antonio Rezza, perimetrando una curiosa variazione del teatro della crudeltà artaudiano che si produce in una teatralità ana-comica, cioè diversamente-inversamente comica.
Al di là del ritmo musicale, della simbologia letteraria del personaggio, del flusso “post-mediale” dello spazio discorsivo, che anche altri usano e molto bene, in Vicidomini c’è una cosa che manca alla maggioranza dei suoi colleghi e lo trasforma in qualcosa di differente: una poetica. Che si sviluppa per iperboli, guasti e pause, e con Antigone dice “piaccio a chi devo piacere”. Perciò quanto sarebbe da perdonare lo ignoriamo, avendoci Fauno nel profondo divertiti.
Bari, Marzo 2022