Aspettative e moventi
Tutto dipende dalle nostre aspettative.
Cosa ci aspettiamo da un sistema politico-sociale libero, liberale, libertario?
E cosa ci aspettiamo dai filosofi, specie se filosofi di professione, esponenti di quella “comunità filosofica” che dovrebbe vegliare sulla libertà tanto di pensare quanto di esprimersi?
Lo spunto per le domande che animano questo libro nasce da impressioni e ragionamenti sorti a seguito di quel che si potrebbe definire “caso Agamben”, ossia la risposta univoca dei filosofi di professione che ha investito Giorgio Agamben, reo di aver detto quanto pensava sul primo lockdown e sull’epidemia.
Questa univocità denota come l’epidemia di COVID abbia innescato, in tutti gli ordini della società (dal parlamento all’accademia fino ai margini), un adeguamento sorprendentemente uniforme alle misure di confinamento dal Presidente del Consiglio.
Sembra che il discorso di Agamben sia valso come la proverbiale bestemmia in chiesa, se solo non fosse che la comunità filosofica non è una chiesa.
O forse sì?
Perché la comunità filosofica e intellettuale italiana ha sentito il bisogno di attaccare in modo compatto, e quasi sempre personale e non entrando nel merito, un blog (e una serie di posizioni) espresse da Giorgio Agamben all’inizio della pandemia? Quasi come se non ci fosse più alcuno spazio per opinioni personali? Che, tra l’altro, dopo diversi mesi dall’inizio dell’evento pandemico stanno cominciando ad apparire anche nella penna di altri autori (Ezio Mauro, Bernard-Henri Lévy etc).
I filosofi italiani potrebbero sembrare un esercito che non spara mai. Ben assestati in quella Fortezza Bastiani che è l’accademia italiana si guardano bene dal tentare sortite in campo aperto.
Non è che i filosofi italiani non siano bravi, non è che non lucidino le loro carabine concettuali, non è che non abbiano una buona mira. Ma una cosa è essere un soldato potenzialmente abile, una cosa è sparare. A volte chi spara, magari non è nemmeno un buon tiratore. Ma le pallottole non sparate, sono pallottole inutili. A volte persino chi non ha una buona mira, può fare centro.
Abbiamo avuto un periodo difficile che ha messo in discussione i principi sui cui è fondato il vivere civile. Mesi difficili, umanamente, politicamente, economicamente; poche settimane che, a detto dello storico Barbero, segnerà un momento di passaggio, una periodizzazione. Su questo è stato molto preciso il filosofo Rocco Ronchi nel definire l’ontologia dell’evento.
In queste giornate, però, i filosofi, che dovrebbero essere chi, più di tutti, hanno la capacità e, oso dirlo, il dovere di discutere sul valore dell’esistenza e sul senso dell’accadere, hanno, con poche eccezioni, taciuto. Un silenzio assordante che è stato superato solo dal clamore degli esperti o presunti tali. Questo vuoto di parole e di posizioni, al di là delle attitudini personali, ha cause profonde che è bene portare alla luce e non lasciare che sia sepolte senza neppure un’autopsia. Come in tutte le malattie, della carne come del pensiero, è bene scoprire l’agente patogeno.
L’agente patogeno è grave ed è stato fatale perché, come il covid19, ha colpito la comunità insieme ad altre patologie cui accennerò. L’agente consiste nella rinuncia, da parte della filosofia della sua speranza di poter cogliere il senso dell’esistenza e quindi di essere, di fatto, discussione dei valori che guidano il vivere.
I filosofi, sperando di poter avere il rigore della scienza, si sono chiusi in discipline.
Quando s’interpreta un testo, quando s’interpreta in genere, la raccomandazione è di essere pietosi. “Che la pietà non vi sia di vergogna” diceva Umberto Eco citando Fabrizio De André, per insegnare che la sovrainterpretazione è dietro l’angolo se non si applica la pietà e per mettere in guardia l’ermeneuta da un atteggiamento troppo severo e inquisitorio.
Nel dire la cosa che vuol dire, l’autore di un testo deve necessariamente mediare, trattare e tradurre questa cosa. Deve mantenere un certo livello di chiarezza per non essere capito solo dagli iniziati, accordare il proprio lessico al lessico proprio dalla cosa di cui si occupa, rimanere in limiti di lunghezza senza eccedere né lesinare, stare in un certo tempo ecc.
Agamben vuol dire da subito che c’è in agguato lo stato d’eccezione, probabilmente è la prima cosa che ha pensato quando il presidente del Consiglio ha imposto il confinamento, ma sa di non poterlo fare da una prospettiva tanto arbitraria e di dover usare un “dato” per innescare il processo di scrittura. Lo trova, forse ci inciampa: lo scientifico, razionale, oggettivo CNR.
Costruire un ragionamento a partire da un’intuizione necessita di una serie di contorsioni di cui chi interpreta deve tenere conto per non condannare troppo facilmente sulla base del tono e dello stile. Il punto potrebbe riguardare non la prima cosa detta da un autore, ma la seconda o la terza. Il dato del CNR era un’istanza minore, la domanda è se c’è una cosa definibile “emergenza” a cui sottomettere leggi e libertà.
Com’è noto ai giuristi, la pratica della legislazione d’emergenza (semplificata dalla figura del decreto-legge) è diventata sempre più ordinaria nel nostro paese. Per farsene un’idea più tecnica si prendano in considerazione le innovative e opportune sentenze della Corte Costituzionale (171/2007 e 128/2008) che ne stigmatizzano l’abuso.
I requisiti dell’emergenza sono la contingenza, la brevità e l’imprevedibilità, ma oggi l’ordinamento investe anche un sindaco di poteri emergenziali, il quale può usarli, ad esempio, per gestire lo smaltimento dei rifiuti o per ricostruire un teatro andato a fuoco. Oggi un provvedimento d’emergenza può prevedere – autocontraddicendosi pienamente – delle deleghe.
L’“emergenza” non è concettualizzata nella Costituzione, perciò ha finito col coincidere con la “eccezionale necessità”, in pratica ogni accidente che metta improvvisamente a repentaglio quanto tutelato dalla legge: terremoti, inondazioni, epidemie, crisi economiche, migrazioni, crolli di edifici ecc. Sempre con l’abusato e onnipresente decreto-legge. Cosa che preoccupa da decenni i giuristi italiani, come testimoniano ampie bibliografie.
Una cosa su cui il dibattito filosofico potrebbe dirigersi attualmente è la definizione del concetto di emergenza e del suo smontaggio, delle sue intime implicazioni e del piacere del chiudersi, la claustrofilia del sistema utilitocratico. In un momento di forte compattezza dell’opinione pubblica, il lavoro è inserirsi negli interstizi di questa massa con un “dato”, al fine di evadere dalla parola d’ordine. Nel momento di massima tensione collettiva, il punto di vista catastrofico-rovesciato-rivoluzionario deve esprimere il suo carattere paradossale. La catastrofe non è il disfacimento del senso critico, ma il suo rovesciamento. Il filosofo non vuole distruggere l’ordine, ma riposizionarlo su basi diverse da quelle dell’opinione data per assodata. Perciò la infiltra per sbriciolarla.
L’infiltrazione di Agamben sull’abuso dell’eccezione ha rotto la compattezza del fronte pro-confinamento e l’ha fatta venire alla luce, dove ha preferito ignorare la perversione dell’emergenza per tornare quanto prima a giustificare l’immobilità.
Riassunto delle puntate precedenti
Il 26 febbraio del 2020, Giorgio Agamben pubblica sul Manifesto un articolo sul covid intitolato Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata (cambiato sul blog di Quodlibet in L’invenzione di un’epidemia), in cui sostanzialmente sostiene che le misure emergenziali sono esagerate e che questo espande il panico che nutre lo stato d’eccezione.
Da questo semplice articolo è scaturito molto dibattito, ma non nella maniera razionale e creativa che ci si aspetterebbe dal mondo filosofico, bensì con una virulenza monocorde inusitata.
Vediamo meglio l’articolo di Agamben, soffermandoci intanto sui due titoli. Quello del Manifesto, scivoloso senza ridurre l’epidemia a un’invenzione, e quello del blog, in cui l’enfasi retorica gioca un brutto tiro all’autore (sempre che non sia una furba scelta editoriale). Infatti, l’epidemia fino a prova contraria c’è. Definirla un’invenzione (o chiamarla “cosiddetta epidemia” come in Contagio) garantisce che il lettore frettoloso o spietato cada in inganno.
L’articolo inizia definendo «frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate [le] misure di emergenza».
Per farlo si appoggia a una nota stampa del CNR pubblicata il 22 febbraio 2020, in cui viene sostenuto che nell’80-90% dei casi i sintomi sono influenzali e solo nel 4% è richiesto il ricovero in terapia intensiva. Non viene fatta menzione della mortalità.
L’analisi fattuale dell’articolo finisce qui. Agamben non cerca altre fonti scientifiche e non cita altri igienisti, microbiologi, infettivologi o virologi. Da questo momento, semplicemente, il virus e l’epidemia scompaiono dall’articolo nel loro senso proprio e diventano pretesti e prefigurazioni di una minaccia tanatopolitica più ampia, vero cuore e interesse degli editoriali agambeniani.
Se questa è la versione scientifica, si chiede Agamben, a cosa serve un lockdown?
E arriva – magari ingenuamente – a domandarsi: se il CNR ha ragione, perché media e autorità creano il panico nella popolazione?
Poteva fare in fretta: il panico serve per controllare, meccanismo attivo fin dall’infanzia con l’uomo nero o il carbone nella calza, è anche eccessivo scomodare Foucault. La paura come strumento di governo è tipica, più che degli stati totalitari, degli stati paternalisti in generale, che non sono necessariamente totalitari. E l’Italia lo è, paternalista. Ma Agamben deve ancora compiere alcune circonvoluzioni prima di arrivare a destinazione.
Si concentra da qui sulla sproporzione fra pericolosità sanitaria (frettolosamente data per assodata via CNR) e misure emergenziali, dovute – scrive – a due fattori: «la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (a cui viene dedicato lo spazio più ampio, circa il settanta per cento dell’articolo) e «lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale».
I punti sono la sproporzione fra evento e risposta, se sia sensata una risposta così eccezionalmente securtaria rispetto a un evento così imponderabile e pulviscolare, e la vaghezza e indeterminatezza delle formule con cui il decreto del 23 febbraio 2020 «militarizza» la penisola con «gravi limitazioni della libertà».
La sproporzione fra evento e risposta e il bisogno di panico sono le leve su cui Agamben issa il suo pluridecennale cavallo di battaglia, lo stato d’eccezione. Ma la torsione più arrischiata che si consente per issarlo è «si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli ogni limite». Niente di più.
La chiusa dell’articolo contiene in nuce il suo presupposto e non si segnala per particolare originalità: «la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo».
Questi legittimi timori vengono liquidati alla svelta dai detrattori, nella fretta di convalidare le misure emergenziali, con un rapido e quasi condiviso “sì sì, questo accentramento del potere sta peggiorando in modo sempre più esplicito, ma ehi! dicci qualcosa che non sappiamo”. Una variazione del “‘a marzià facce ride’” di Flaiano.
Ora, come si desume dalle date, Agamben ha avuto pochi giorni per ponderare le sue considerazioni iniziali sull’epidemia. Del resto, non era neanche obbligato a maturare una più profonda conoscenza. Primo perché non è il suo mestiere. Secondo perché uno scritto d’occasione è sempre più polemico che informato, altrimenti si scriverebbe un saggio. Per altro verso è ozioso pretendere, come del resto è stato fatto, un’analisi meno agambeniana da Agamben.
I detrattori, invece, sembrano essersi interessati di più a un supposto complottismo anti-scientifico dell’autore di Homo sacer, quasi fosse un qualunque esagitato a caccia di teorie deliranti sui social.
Non potendo citare e analizzare nei dettagli tutto quello che è stato scritto sulla scorta degli articoli di Agamben, ci limitiamo a proporre un riassunto dei casi più significativi.
Jean-Luc Nancy (27 febbraio), anche lui a caldo evidentemente, scrive un articolo dove sostiene che per Agamben il coronavirus è poco più di un’influenza, schiacciando indebitamente il pensiero espresso dall’articolo sull’interpretazione minima di una nota del CNR da parte di un profano. Per dare forza a questo schiacciamento, dopo una disamina piuttosto generica, Nancy evoca un ricordo personale: quando Agamben gli sconsigliò di dare retta ai medici che gli consigliavano di operarsi al cuore.
Dobbiamo dedurre dal discorso di Nancy che Agamben è scettico sulla scienza? O solo sui medici? O solo sui medici di Nancy? Crede alla jella o all’erboristeria o altro? Difficile dirlo. Soprattutto perché Agamben non dice una parola sulla scienza o sulla medicina e non consulta una cartomante ma il CNR per il suo articolo. Cosa dedurne?
Roberto Esposito (28 febbraio), Sergio Benvenuto (5 marzo) e Pier Aldo Rovatti (8 marzo) mostrano di non essere poi così distanti da lui su tanatopolitica e eccezione, per quanto bonariamente critici verso l’enfasi messa da Agamben sulla posta democratica (come fa Esposito, mentre Rovatti insinua un’accusa di dietrologia).
Nel tentativo di spiegare e chiarire, Agamben tornerà sull’argomento con altri due articoli: Contagio (11 marzo) e Chiarimenti (17 marzo).
Nel primo minimizza l’epidemia, ma di nuovo non incita nessuno a contagiarsi e non inneggia ai covid-party, semmai critica nuovamente la propensione a rendere ordinarie le misure di emergenza .
Nel secondo ritorna sul panico che vede disseminarsi e ricorda che «una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera» (come dargli torto?).
La polemica si intensifica e gli obiettivi rimangono le idiosincrasie di Agamben, mentre si glissa elegantemente o si minimizza con sufficienza sulla sua denuncia dello stato emergenziale. Le critiche agli articoli sono stereotipate almeno quanto il loro oggetto e il tono sferzante si sente più verso l’autore che verso la privazione della libertà.
Sergio Benvenuto (18 marzo), maturato un giudizio sul livello di gravità del fenomeno, definisce l’approccio di Agamben «superficiale»: «Agamben non ha capito nulla di quel che sta succedendo nella molecolarità delle relazioni umane. […] Chi è socievole oggi non sta in società». Ne deduciamo che Benvenuto ha capito cosa sta succedendo nella molecolarità o che almeno ha capito perché Agamben non ha capito e non è detto che le due cose coincidano.
Marco D’Eramo (25 marzo) lo attacca frontalmente, prima ricordando – tramite l’esempio di Hegel, morto di colera – che anche i filosofi muoiono di malattia e poi sostenendo che, se Agamben poteva esprimere quelle opinioni ancora a febbraio, a marzo diventava intollerabile (per spirito di servizio? Per carità di patria? Perché?).
«Dove Agamben ha perfettamente torto è quando non vede con quanta riluttanza i dominanti stiano accettando che i loro affari (compagnie aeree, imprese edilizie, fabbriche automobilistiche, circuiti turistici, produzioni cinematografiche: in breve, tutto) vadano in malora» scrive D’Eramo.
Qui dovremmo dire non solo i dominanti, ma anche i “dominati”, dai baristi ai possessori di b&b ai venditori ambulanti alle disprezzate partite iva, nessuno è felice di veder andare in malora i propri affari: provi D’Eramo a parlarne con chi aveva già fissato la sala ricevimenti per il matrimonio.
«E poi, se mi posso permettere, il tono oracolare andava bene a D’Annunzio, non a un filosofo: questo lirismo sul contatto/metaforicamente-contagio è francamente fuori luogo quando persone in carne e ossa muoiono sole, abbandonate, isolate dai propri cari senza funerale». Fatto, quest’ultimo, tenuto in debito conto anche da Agamben, sebbene con meno enfasi, ma a quanto pare non rileva.
Di nuovo questioni di stile e tono, con riferimento all’inopportunità di parlarne in quel momento.
Luca Illetterati (31 marzo) sostiene che Agamben fa auto-archeologia e che bisogna andare oltre nell’analisi. Dopo l’accusa di dualismo, c’è l’attacco personale: «Agamben viene a trovarsi, per quanto per motivi diversi, sulla stessa barca di Donald Trump, secondo il quale la terapia è peggiore dell’epidemia, o di Bolsonaro, secondo il quale l’epidemia non deve indurre ad azioni straordinarie, ma si deve rimanere ancorati alla normalità, o in generale di tutti coloro che ritengono sacrificabili le nude vite sull’altare dell’economia».
La cosa è anche buffa: un Agamben “turbocapitalista”, esaltatore dell’economia e della tecnica sopra il valore della vita, sembra una freddura. Per lo stesso ragionamento Marco Pannella – che era scettico sul 41 bis – sarebbe come chi esalta la criminalità organizzata (accusa che in effetti gli è anche stata rivolta).
Di Francescomaria Tedesco (10 aprile), che dedica molto spazio e impegno alla questione, estrapoliamo solo una battuta, un lapsus chiarificatore: «Magari esistessero ancora condanne a morte per i filosofi che corrompono o che minacciano la salute della società!».
Infine, Bruno Moroncini, nell’articolo L’innominato è nudo, parla del «disprezzo che sembra trasparire dalle sue parole [di Agamben], il disprezzo per noi povere creature che […] pensiamo solo a come evitare di morire».
Altri giudizi, aspri e sarcastici, si leggono trasversalmente nella stampa non specializzata da “Left” (Andreas Iacarella, 29 marzo) a “Il Foglio” (Maurizio Crippa, 23 aprile).