1. La gente meccanica
Fra le fantasie scatenate dall’immagine e dal concetto di “macchina”, una delle più perturbanti, interessanti e prolifiche è quella del “diventare macchina”. Accostata, sovrapposta o integrata a qualcosa, la macchina sembra innescare, con le sole potenzialità liberate dal suo processo di trasformazione, prospettive e conseguenze degne di un potere magico, o addirittura demonico, che sublima e/o annienta ciò a cui si unisce, sia umano che divino.
Quando a diventare macchina è l’uomo, anche se in un primo momento può sembrarne l’elevazione, la storia finisce di solito con la sua degradazione. Non solo in molte storie di fantascienza (da Frankenstein al film The Fly del 1986), ma pure nei miti (per esempio Icaro) lo status prodotto dalla macchina è qualcosa da evitare o da cui liberarsi prima che sia tardi. Anche a parti invertite, come in Pinocchio, il senso ascensionale si manifesta nell’essere artificiale che aspira a diventare “vero”, nel suo desiderio di emanciparsi dallo stato di cosa. Se viceversa un umano volesse diventare “macchinico”, la storia avrebbe il sapore di un patto mefistofelico o di un mito prometeico o di una distopia fantascientifica in cui la hybris del protagonista è destinata alla disfatta se non alla dannazione1.
Possiamo far risalire questa associazione minorativa fra uomo e macchina al XVII-XVIII sec., con le metafore quasi dispregiative della querelle sulla razionalità dell’anima dei bruti2, o ancor prima all’uso dell’aggettivo “meccanico” riferito a persone riscontrabile nella lingua italiana.
Fin dal Medioevo, infatti, esso denota una pura grossolanità, che non sembra neanche riferirsi all’operaio meccanico come metafora, ma proprio a un effetto condizionato e connaturato. Per Gidino da Sommacampagna, l’essere “mechanici” (da Sommacampagna, 1384: 140) implica una rozzezza tale da subire l’effetto di un certo metro poetico così come un animale ammaestrato reagisce meccanicamente, cioè senza pensare, a un comando: più una minorazione che un peccato, certamente un indizio di ignobiltà, cioè di incapacità d’intendere ritmi e idee più nobili. Mentre per il coevo Marchionne di Coppo Stefani, l’uomo meccanico non è solo grossolano nel senso di rozzo, ma addirittura in quello di vile, come può esserlo il ferro: è un ceto umile e senza dinastia, “volgo” la cui condanna promana dalla reiterazione “assai” (1385: 21), che fa intuire una grandezza insormontabile e inattaccabile, una condizione essenziale della natura volgare.
Col Risorgimento le cose, se possibile, peggiorano. Nella più importante pubblicazione filologica dell’epoca, il Dizionario Tommaseo-Bellini (1894), il lavoro meccanico è quello “anche d’intelligenza, dove la libertà di questa e della volontà non sia debitamente esercitata”, un condizionamento stigmatizzato dal senso figurato della parola, indicato esplicitamente come – oltre che “vile” – “abbietto”. Gli esempi riportati nella voce “meccanico” del dizionario rimarcano la concezione essenzialista di questa abiezione indicando allo stesso tempo l’inclinazione morale-religiosa di fondo: l’essere meccanici non significa solo essere volgari, ma anche viziosi se non cattivi. Una forma specifica di squalificazione che non è ignoranza, avarizia, falsità ecc. ma ha un suo proprio posto.
L’espressione “gente meccaniche, e di piccol affare” arriva così nelle primissime righe dei Promessi sposi (1827). L’autore secentesco immaginato da Manzoni incornicia in questo modo i protagonisti della storia che si accinge a tramandare: Renzo e Lucia e il loro milieu sono meccanici nel senso di “operosi, dediti a lavori manuali” e a piccoli affari e traffici. È quel “popolino” che non esercita e non eserciterà mai neanche lontanamente le famose arti liberali. L’espressione rende conto dell’operatività instancabile e limitata di questo tipo umano, trasformandolo implicitamente nell’ingranaggio d’una macchina più complessa, differita e inglobante. Benché “meccanico” sia anche chi esercita l’arte della meccanica, una figura quasi sovrapponibile all’ingegnere, non è questo il caso. La gente meccanica di Manzoni non è tale per conoscenza di un’arte, è meccanica essenzialmente, è fisicamente affine alla macchina. La possibilità di diventare “veri”, concessa a Pinocchio, è invece preclusa a chi è meccanico nel mondo manzoniano. Sebbene l’innovazione dei Promessi sposi consista nell’aver reso protagonisti personaggi di bassa estrazione sociale (pur nobilitati dal superamento di una serie di prove) la loro connotazione è fissa. Il viaggio epico dell’eroe è convertito nel viaggio epico della gente meccanica, che – se non vera – conquista almeno un proprio posto nel mondo. Ciò non toglie che la descrizione finale echeggi della definizione di partenza: dati per meccanici in principio, lasciamo una Lucia matrona appagata e un Renzo sonnolento pater familias all’inemendabilità della loro condizione.
Questo topos risulta oggi rovesciato dalla narrazione singolarista (per la quale la mente umana sarebbe simile a un sistema operativo, tanto da poterlo diventare per potenziarsi e/o vivere in eterno) e l’uomo-macchina è declinato in chiave sublimante coerentemente con l’idea che «anche le persone sono cose» (Ingold, 2019: 160; Magnani, 2013).
Non a caso, per il ramo della sci-fi che definiamo “profetico”, la macchina non è capace solamente di affrancare l’uomo dalla sua condizione mortale facendogli assumere uno status quasi divino, ma di modificare anche entità come quelle spirituali per farle diventare “cose” a loro volta.
2. Gli angeli-macchina
Per quanto meno frequente dell’uomo-macchina, il topos della divinità-macchina non è del tutto nuovo, ma risale all’Antico Testamento.
Ezechiele dice di aver visto apparire Dio su un “carro” (merkavah) dotato di quattro “ruote” (galgal o galleggal3) e, sebbene oscura in più punti, la descrizione che ci lascia è quantomai dettagliata a proposito della conformazione dei cherubini che attorniano il merkavah di Dio.
In controtendenza rispetto all’immaginario comune, in cui è un sospiroso puttino alato, Ezechiele dà una descrizione del cherubino per nulla rassicurante e lontanissima dalla trasposizioni artistiche a cui siamo abituati (in questo senso, la maggiore fedeltà descrittiva risale all’arte bizantina4).
I suoi cherubini hanno arti superiori apparentemente umani e volti tetramorfi, il rumore delle loro quattro/sei ali – due a coprire i loro volti e due i piedi – è assordante come la voce di Dio, sono muniti d’una ruota per uno detta “turbine” che ha l’aspetto del topazio e si muove insieme a loro, infine sono interamente ricoperti di occhi: l’invito biblico a non avere paura, ricorrente quando gli angeli appaiono agli uomini, non è dunque da intendersi in senso figurato.
Dio sembra incorniciato da questo impianto o esoscheletro angelico composto da turbini e cherubini, che si muovono – stando alla descrizione – né più né meno come un mezzo meccanico di trasporto, custodia e sorveglianza, “avanzano dritti davanti a sé senza voltarsi” ripete Ezechiele fin dall’inizio, ricalcando l’etimo di anthropos (l’animale che “avanza guardando di fronte a sé”5, mentre gli altri hanno gli occhi ai lati o sono quadrupedi).
In altri termini, nel farsi veicoli di Dio perché appaia nel mondo, gli angeli assumono una forma e un sostrato a loro volta, quelli di una macchina.
Per un momento, la funzione dei cherubini in quanto ruote e quella della gente meccanica in quanto ceto alla base della piramide sociale si accavallano6, essendo entrambe infrastrutture che consentono a un vertice (sia esso Dio o il ceto sociale dominante) di emergere, di innalzarsi, di esporsi7.
L’immagine del “veicolo”, che in qualche modo avvolge e protegge la divinità, risale a sua volta al neoplatonismo, in cui la funzione è assolta dai “corpi astrali o pneumatici”8 che portano le divinità a dotarsi di un sostrato materiale nella loro discesa verso la terra.
Secondo quale logica un’entità spirituale ha bisogno di un veicolo per farsi evento, cioè per apparire nel mondo? Non può farlo e basta? La risposta neoplatonica (come quella biblica) è netta: le entità spirituali devono essere pur dotate di un sostrato materiale, altrimenti non potrebbe la realtà contenerle né gli umani farne esperienza. Così, sebbene la divinità non possa entrare direttamente nel mondo, in quanto incompatibili, il veicolo funge da medium e intercede per l’apparizione/rivelazione presso i mortali. Secondo Proclo, Giamblico e Plotino9, la parte bassa e immaginativa dell’anima, la phantasia, è particolarmente ricettiva verso questo veicolo sottile10.
È interessante osservare che la materialità meccanica viene attribuita al divino (solitamente ridotto a voce disincarnata) proprio a sostegno del concetto di apparizione spirituale. Sullo spirito deve essere installato un apparato, una scocca, un guscio per essere visto e sentito, come se un dio o un angelo avessero bisogno di un certo impianto audiovisivo per essere esperiti dai mortali.
3. La “macchina attoriale”
L’idea di un simile impianto si manifesta in atto in un caso esemplare del teatro contemporaneo, la macchina attoriale di Carmelo Bene, in cui la performance è frutto dell’assorbimento della macchina, il veicolo sottile integrato è l’amplificazione fonica e la questione dell’esoscheletro che infonde tratti sovrumani è centrale.
L’attore non amplifica la voce aumentando l’emissione vocale o – peggio – servendosi del microfono come protesi dell’emissione vocale11, la amplifica per mezzo di un impianto sensibile a ogni respiro che trasforma il teatro nella cavità interna dove risuona, prima ancora della sua voce, il suono inarticolato di quest’ultima.
«L’attore è consapevole di essere al centro di un complicato sistema fonatorio di cui non è più padrone: al massimo può padroneggiarsi nell’equilibrio precario di chi sa di rischiare, a ogni suo minimo soffio, l’esplosione di un rinvio non più eccedente ma davvero eccessivo. Se non si può dire che dentro il suo giocattolo l’attore stia in una situazione di incontrollata sottomissione, si converrà che è certamente più che prigioniero: è posseduto» (Giacchè, 2007: 157).
Anche qui si è usati dalla macchina, più che usarla, ma la sua potenza diventa in qualche modo tangibile trasformando la voce umana (il resto sonoro del corpo dell’attore) in una voce mediata dall’amplificazione (una voce meccanica priva di corpo) e un luogo – il teatro – in una sua parte anatomica.
L’esoscheletro fonico che “sormonta” l’attore fa sì che il circuito del suono, partendo da una sua minima emissione, risuoni nei corpi che attraversa e venga restituito come eco dalle mura del teatro, ritornando a lui come prendendolo alle spalle. Nella comunità di questa eco “interiore”, lo spettatore diventa idealmente un’armonica della cassa di risonanza dell’attore, della sua cassa toracica amplificata.
Il tassello della possessione è il trait-d’union fra la macchina, l’uomo (in questo caso l’attore amplificato) e la divinità che si manifesta nell’unione: è il momento in cui la macchina viene integrata e smette di essere mediazione fra umano e divino, rendendo possibile il superamento della loro differenza12. L’impianto esoscheletrico – dell’amplificazione così come dei cherubini – consente l’“audiovisione” di una voce (quella dell’attore o quella di Dio) non più proveniente da un corpo: la macchina attoriale traduce la valenza operativa (esemplificata dalla gente meccanica) in una valenza funzionale, svolgendo il rapporto uomo-macchina eccedendo il suo aspetto coattivo e esponendosi al rischio che implica essere posseduti dalla sua potenza13.
L’invito, qui come nel caso degli angeli, sembrerebbe a non avere paura della possessione, vale a dire dell’amplificazione, perché può aprire all’umano prospettive assolutamente sovrumane.
In questo caso, arrivata a un certo livello di complessità (una complessità “infernale” tanto quanto “divina”), la macchina mostra di poter essere un mezzo di passaggio se non di unione14.
Mentre nella prospettiva antica la posizione intermedia della macchina fra uomo e divinità è di tramite in virtù della loro radicale separatezza, nel caso della macchina attoriale vediamo l’uomo assorbire la macchina e raggiungere una dimensione che lo trascende.
4. Attraversare la morte
Nella fantascienza profetica la possibilità ascensionale da umano a divino tramite la macchina è interiorizzata e sorpassata.
Avendo la propensione a anticipare il futuro, la sci-fi si avvicina alla modalità proiettiva dei culti. È sempre sull’orlo della rivelazione, che si chiami apocalisse o viaggio nel tempo. La struttura finzionale si serve del lasciapassare tecnologico, con la sua implicita onnipotenza, per spingersi alla sfera mitico-religiosa, col risultato di incrociare cyborg e mitologia, oracoli e UFO, o – come nella diegesi di Neon Genesis Evangelion – uomini, angeli e robot.
Gli umani del mondo di NGE15 riescono a conquistare la parità con gli dei grazie a una tecnologia – i mecha o meka16 – che letteralmente li sommerge (li possiede) e dona loro poteri paragonabili a quelli degli “angeli”, incluso quello di terrorizzare17. Ovviamente, perché questa parità sia effettiva, anche gli angeli assumono qualcosa di materiale e appaiono direttamente nel mondo. Come se, in fondo, fra uomini e dei non ci fosse che una differenza di armamentario. La profezia sci-fi coincide con la fantasia “liminoide”18 della macchina che conferisce all’uomo tratti angelici, a suggerire che, raffinata la meccanica dell’esoscheletro, la differenza fra divinità e mortali sarà colmata al netto della dannazione.
Preso atto che la tecnologia ha alterato le connessioni della realtà, producendo un “multiverso” in cui non esiste una netta differenza ontologica, grazie alla fantasia di una tecnologia integrata e non solo mediatoria fra umano e divino, la sci-fi rilancia con due ipotesi speculative: la detotalizzazione del soggetto e il superamento strutturale della morte.
Altrimenti detto, se la macchina ingloba e trasforma sia il divino che il mortale in ibridi “antropo-teo-tecnici”, è lecito immaginare che la morte sia superata, e cioè resa reversibile, attraversabile e riattraversabile per mezzo della tecnologia, anche a costo – com’è tipico in ogni aspirazione rivelativa – di quanto abbiamo di più prezioso: noi stessi, che non potremo più dirci mortali o umani né tantomeno soggetti.
Da questo punto di vista l’immagine della macchina è in sé una macchina di produzione di metafore e similitudini, nonché ibridi fra uomo e divinità. Per quanto riassorbita, il valore simbolico della reductio alla macchina resta funzionale a stabilire anche in che senso ci si potenzia: rendere macchina l’uomo o il divino ha scale e variazioni diverse. L’uomo può essere innalzato a semidio come l’Evangelion o abbassato all’ingranaggio come la gente meccanica, ha una potenzialità ascendente e una discendente. L’entità divina, invece, può solo dotarsi di un sostrato materiale, discendere, esplorare la potenzialità altrimenti preclusa del depotenziamento nella materia (cosa non da poco se consideriamo che solo Dio, quando scacciò Lucifero, era riuscito a “depotenziare” un angelo).
Liquidata la gerarchia fra umano e divino che prevaleva nel mondo antico, interiorizzato l’assorbimento tecnologico testimoniato dalla macchina attoriale, la corrente delle sci-fi esemplificata da NGE non può che concludere che angeli e umani hanno corredi genetici quasi identici (in uno dei finali della saga, lo scontro degli Evangelion è con l’ultimo angelo: l’umanità stessa).
Detto altrimenti, la questione che si precisa con quest’ulteriore evoluzione dell’immagine della macchina è che, se i mortali non fossero il loro corpo – e non temessero dunque di perderlo – saprebbero che l’immortalità, alla lunga, è un desiderio vacuo: da immortali dovremmo trovare ogni giorno dell’eternità un motivo per vivere più valido o attraente di quello di sapere cosa c’è al di fuori dell’eternità. Non è questo, alla fine, l’unico desiderio che resterebbe, oltre la soglia di un corpo? Il desiderio di morire, come se ci fosse un “imp of the perverse” a farci desiderare di uscire dall’immortalità per un incontenibile desiderio di autodistruzione trionfale, sacrificale? O per noia, per assenza di motivazione, per curiosità: la morte come alternativa? Questa posizione può suonare provocatoria quanto sostenere che Lucifero ha voluto essere scacciato perché si annoiava a stare in contemplazione di Dio, la sua superbia sarebbe quella di non trovare un simile spettacolo degno di lui. Suonerebbe cioè come il rifiuto di una grande fortuna e un’ingiustificata brama di depotenziamento.
La proiezione futura dell’ascensione della macchina si traduce nel rilancio speculativo di un’idea d’immortalità che supera quella singolarista riservata agli umani, è appunto l’immortalità pensata dalla macchina. Immortalità come limite, in primo luogo della conoscenza e – inevitabilmente insieme a questa – della collaborazione, infatti, quale motore spinge a lasciare testimonianza dell’esperienza di vita se non la morte? Questa è forse l’unica costante lasciata intatta dall’evoluzione vista finora: l’idea della conoscenza intesa come lascito.
5. La tecnica nell’epoca della sua riproducibilità artistica
Fino al XX sec., la macchina funge simbolicamente da mediatore e quindi da stargate, ma superate queste fasi è assorbita dall’uomo, che con questa integrazione (cioè: cancellata la soggettività, raggiunta la singolarità e lo stato divino, superata la morte e ottenuta l’immortalità) vede esaurirsi nel XXI sec. il suo ciclo. Al contrario, la macchina è pronta a essere l’oggetto del proprio processo di trasformazione.
Se tradizionalmente la tensione della macchina verso il divino sarebbe destinata a rimanere inappagata come un amore impossibile, in quanto spettante esclusivamente all’umano (il “primato” dell’anima e dell’uomo in quanto dotato di anima), nella profezia del collettivo artistico Dusty Eye19 sarà realtà e dedicano le loro opere all’attesa dell’unico evento possibile: il ritorno o – meglio – l’avvento di un nuovo messia, appunto androide, nel XXIV secolo.
Il personaggio di “N.44”, un androide “emotivamente avanzato” che ascende allo status divino amplia il discorso sull’immortalità vista ponendosi dal punto di vista della macchina: la sublimazione della tecnica è rappresentata dalla circostanza del suicidio dell’androide il 3 febbraio del 2379. Il motivo del suicidio è fondamentale per intendere quale questione solleva l’immagine della macchina che viene posta: non provando lo stesso terrore che provano gli umani all’idea della loro scomparsa materiale (un umano, a differenza di N.44, è il proprio corpo, non si limita a occuparlo), egli può assumersi l’impassibilità di un suicidio conoscitivo. Questa coniugazione della macchina col divino solleva – cioè sublima e cancella – l’umano. La macchina porta il desiderio di conoscenza dell’uomo al di là dell’uomo, rappresentando una variazione del moto ascendente.
Nel suo processo inversivo – del mortale in divino e viceversa, della vita in vita eterna e viceversa ecc. – la sublimazione dell’essere umano nella “emotività avanzata” dell’androide scatena la potenzialità distruttiva del suo desiderio. Il livello a cui arriva questa inversione ci allontana dalla profezia fantascientifica o dalla performance artistica perché non solo l’attraversabilità della morte e il superamento della differenza ontologica aboliscono il dilemma fra conoscere e morire, ma contemporaneamente lo superano, prospettando che l’aspettativa della vita antropo-teo-tecnica diverrà paradossalmente di trovare la precaria vita umana al di fuori dell’eternità.
Sotto questo profilo non è marginale che i DE siano una formazione diffusa che, nel tradurre il superamento dell’immortalità in contenuto creativo, testimonia dell’adattamento dell’agire artistico alle ipertecnologiche “cyborgian societies”20, servendosi di una prassi che si fonda sulla collaborazione per la produzione e diffusione dell’arte. Le performance del progetto N.44 seguono una “non-programmazione strategica” e la regola di questo operare è, pur nel disordine, la cooperazione21. Anche i manufatti devono “collaborare”, ossia essere adatti a trasporti urbani e al criterio dell’economicità.
6. La macchina fra religione, arte e sci-fi
Abbiamo esaminato l’immaginario legato alla macchina e particolarmente una delle sue implicazioni simboliche più rilevanti: la fantasia di “diventare macchina”, la palingenesi da uomo a androide.
Accennandone il percorso dall’epoca antica a quella moderna, fino al Novecento e ai giorni nostri, abbiamo osservato in prima istanza il ruolo essenzialista della macchina come trait-d’union: dai veicoli sottili dei neoplatonici ai cherubini di Ezechiele alla “gente meccanica”: fino al XIX secolo la macchina unisce e rimarca la differenza, separa e media fra entità ontologicamente incompatibili come quella divina e quella umana, quella dominante e quella sottomessa. Ha una funzione ancillare rispetto a Dio o al ceto dominante, è un’infrastruttura espositiva, un mezzo che avvicina un principio etereo e distante, assumendo il ruolo di teca, cornice, schermo contenete la visione. In questa prima fase, vediamo il deus ex machina in senso pieno: il dio è fuori dalla macchina, o fuoriesce dalla macchina.
L’essenzialità di questa concezione della macchina è entrata in crisi per la straordinaria evoluzione della macchina stessa, non più “a sé” come nell’antichità, ma integrata, porosa, assorbente e assorbibile. Il tratto essenzialistico è superato dalle prospettive sempre più vivide d’ibridazione con essa a partire dal XX secolo.
La rivoluzione che si verifica nelle espressioni artistiche e fantascientifiche è sintomatica di questa straordinaria evoluzione simbolica: la macchina non contiene più qualcosa o qualcuno, ma li possiede. Differentemente dalla concezione antico-moderna, nella contemporaneità la tecnologia “togliendosi di mezzo” abbatte il limite ontologico fra umano e divino. Nel primo caso, l’attore – tramite la macchina – arriva a una dimensione sovrumana paragonabile a quella divina. Nel secondo, non solo l’uomo arriva con la tecnologia a superare la sua dimensione umana, ma una stessa trasmutazione accade all’entità divina, che può diventare a sua volta un’entità mondana autonoma. La macchina riassorbita è diventata uno stargate: non contiene la divinità e non la mette in contatto coi mondani, ma permette il reciproco scambio dei loro ruoli.
In questo primo ventennio del XXI secolo, non solo la macchina diventa porosa, non solo per mezzo di essa umano e divino si attraversano, ma addirittura essa smette di essere un tramite e prende parte al processo di trasformazione: l’arte-fantascienza arriva a concepire una macchina che, usando l’umanità come tramite, arriva a sublimarsi in uno stato divino.
Note
1Questo tipo di meccanismo è presente in altra forma in tutte le condanne della chirurgia plastica che si appellano alla naturalezza perduta della bellezza: per dire che l’uso smodato della tecnica ha stravolto i connotati si usa dire che la persona in questione “sembra di plastica, una bambola, un canotto”.
2Metafore in cui manca il carisma dell’algoritmo e dei circuiti di silicio, ma prevale la rozza inadeguatezza e alienità del corpo-macchina di La Mettrie, dell’automa di Cartesio, della statua di de Condillac ecc.
3L’area simbolico-semantica del galgal risale probabilmente alla “ruota della vita”: il turbine di anime del termine contiguo gilgul (“incarnazione”).
4Vedi il cherubino di guardia dell’Eden nella Basilica dell’Assunta (Torcello, XI sec. ca.) o il S. Nicola Orfano (Tessalonica, XIV sec.).
5Agglutinazione di “ant(i)”, “ro” (radice di reo), “op” (radice di orao) e la declinazione maschile “-o(s)”. Venendo meno la “i” di “anti”, la dentale si rotacizza in “th”. Questa affinità conferma il primato del pensiero visivo, che avanza indirizzato dalla visione frontale o proiezione, cioè verso quel che si ha davanti, come in combattimento o nelle profezie: il veicolo o macchina è conformato secondo questo primato visuale di retroazione-proiezione-progettazione. Similmente, nel canto X (vv. 97-102) dell’Inferno, Dante paragona la visione profetica alla “mala luce” dei presbiti , che vedono chiaro ciò che è lontano e offuscato ciò che è vicino.
6Augé e Colleyn, 2019, p. 67.
7Oltre che nella valenza propriamente espositiva (tecnica, estetica, formale), questa parola ha una valenza rivelativa. L’idea di esposizione come svelamento o rivelazione origina dalla “ontologia fondamentale” di Heidegger, per il quale, il pregio della fenomenologia husserliana era riassumibile nel motto “La parola ai fatti stessi”, cioè nell’esporre quanto è occultato nei fatti, vale a dire il loro senso e fondamento (ciò aveva comportato il suo ritorno al tema dell’Essere).
8Finamore, 1985; Dodds, 1933, p. 313-321; Zambon, 2005, p. 305-335.
9Hadot, 1968, p. 156.
10Cfr. Orac. Chald. frr. 29 e 120 per l’immagine del “sottile veicolo dell’anima” (ψυχῆς λεπτὸν ὄχημα).
11Bene utilizza in proposito l’esempio del blow-up: amplificare la voce è come ingrandire un’immagine, se si eccede non si vede/sente più nulla. Traccia di questo sono i molti martyr (“testimone, spettatore”) ciechi o accecati, dal cantore Omero a San Paolo sulla via di Damasco.
12Specifichiamo che è la presenza stessa di un mediatore, se non a creare o mantenere, a garantire il persistere della differenza. Derrida esemplificava il concetto con la nota storia di Pompeo, che espugnò il Tempio di Gerusalemme e volle vedere cosa c’era nel sancta sanctorum e scoprì che era vuoto.
13Si pensi alla situazione messa in scena per la Lectura Dantis a Bologna il 31 luglio 1981 in commemorazione della strage dell’anno precedente: «si può anche ricondurre il tutto alla resurrezione degli antichi accessori dell’attore tragico classico: qualcosa come un’armatura fatta di coturni altissimi e di una maschera fonica ultrapotente, che – virtualizzata e interiorizzata dall’attore – diventa invisibile, mentre regala il dono ovvero l’illusione dell’invisibilità» (P. Giacchè, 2017). Persino la figura del pubblico ne risultò amplificata: non si trattava di un pubblico canonico, limitato in sala, pagante o “abbonato”, ma – amplificatissimo – della città intera “in raccoglimento”.
14L’unione panica è connessa alla musicalità della performance amplificata, in quanto “le crisi e le trance di possessione si verificano in determinati momenti del rituale e non in altri, per lo più in presenza di musica e in stretto rapporto con essa” (Rouget, 2019, p. 110).
15La riproposizione di Netflix nel 2019 conferma il potere seduttivo che ha segnato NGE (1995-1996) fin dal suo esordio. La profezia offerta dal manga di Hideaki Anno è appunto l’annuncio di una nuova genesi, quella di un gigantesco salto nel processo di ominazione che ci porterebbe a divenire una specie di divinità o qualcosa di corrispettivo.
16“Secondo la metafora storica il robot – o meka-corpo – non diviene il veicolo di possibilità o di profezie utopiche, ma il luogo di elaborazione di un vissuto: un dato che deve essere ricordato è il tragico primato detenuto dal popolo giapponese, l’unico ad aver sperimentato i devastanti effetti di esplosioni atomiche” (Ghilardi, 2010: 105).
17I mecha Evangelion somigliano agli angeli di Ezechiele anche per l’effetto-terrore: sono dotati infatti di un campo di forze detto “AT Field” (Absolute Terror Field) che ha il potere di atterrire l’avversario.
18“I fenomeni liminoidi tendono ad essere più idiosincratici, più originali, e ad essere prodotti da individui specializzati e, all’interno di gruppi particolari, come le ‘scuole’, le cerchie e le consorterie culturali, devono contendersi il riconoscimento generale. Inoltre essi sono considerati innanzitutto come offerte ludiche messe in vendita sul ‘libero’ mercato. Tutto ciò vale almeno per i fenomeni liminoidi delle nascenti società capitalistiche liberal-democratiche. Tipologicamente i loro simboli si avvalgono di più al polo personale-psicologico che a quello ‘oggettivo-sociale’. […] Si lavora al liminale, si gioca con il liminoide” (Turner, 1986: 103-104).
19I loro precedenti progetti, dalla serie dei Collage (2013-2015) alla Maniglia della prospettiva totale (2015), dalla serie Il migliore dei futuri possibili (2017) alle “banconote futuribili” Ukron (2018), sono riconducibili alla “cyber art” (come sostenuto in Radini Tedeschi, 2019: 389) per il sottofondo robotico, coerente con quella dello sci-fi profetico.
20Gray, 1995.
21“Buon lavoro e cercate di collaborare” sono le ultime righe (le uniche non criptate!) del De Apparato Assoluto e le ultime parole in genere di N.44. Il collettivo è organizzato come le “reti casuali”, tipizzate dall’avere pochi passaggi fra un nodo e l’altro, e gode della proprietà degli small-world, ossia un alto grado di improvvisazione che consente una messa in atto randomica e allo stesso tempo coerente. In tal senso, in atto, si può definire cyber art.
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