Il dibattito sulla natura illusoria della realtà e la virtualità del mondo risale al tema della farfalla pensato da Zhuangzi nel IV secolo a.C. e al relativismo quasi assoluto di Gorgia. Successivamente, il “dio malvagio” di Cartesio estenderà il suo dubbio iperbolico a tutta la realtà nel XVII, e i fisici positivisti cercheranno mondi alternativi tra le particelle atomiche. La fantascienza sembra recuperare questo dibattito, specialmente nella seconda metà del XX secolo, quando le tecnologie del nuovo millennio si espandono cambiando la vita umana. Il presente lavoro ha lo scopo di studiarne le rotte e indicarne possibili sviluppi.
1. Anima e anime. L’origine della simulazione
Nell’antica categoria narrativa del “mondo nel mondo” è presente la sottocategoria del “mondo simulato nel mondo reale1”. Lungo una traccia costante e carsica, questa categoria viene rappresentata da un preciso filone della fantascienza della seconda metà del Novecento, che ha raggiunto il suo apogeo e il suo declino negli anni Novanta del secolo.
In concomitanza con la diffusione delle videoregistrazioni, del computer, di Internet, e col prendere piede presso il grande pubblico dei reality show, in quegli anni vennero prodotti cinque film molto simili per la ricorrente tematica del mondo simulato: Il tagliaerbe (The Lawnmower Man, 1992), Man in Black (1997), The Truman Show (1998), Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, 1999) e il più influente Matrix (1999).
Partendo dall’ossessione per la sparizione del mondo simulato e per la dissimulazione del mondo apparente in film come Matrix o The Truman Show è possibile pedinare questa traccia fino alla fantascienza degli anni Cinquanta.
Il tagliaerbe è frutto di un precedente progetto, indicativamente intitolato Cyber God, ibridato con un vago riferimento al racconto The Lawnmower Man (1975) di Stephen King, incluso nella raccolta A volte ritornano (1978)2. La trama vede un giardiniere subire un processo di potenziamento cognitivo, grazie all’invenzione del personaggio di Pierce Brosnam, e trascendere in puro programma, per poi fluire liberamente nella rete alla fine del film. In questo caso, l’ingresso nel mondo simulato viene declinato secondo il desiderio di rivalsa del giardiniere, che può vendicarsi dei soprusi subiti grazie alla onnipotenza acquisita per mezzo del computer e della rete.
The Man in Black, fumetto del 1990-1997 di Lowell Cunningham (1959), diventa un film nel 1997 con la regia di Barry Sonnenfeld, che ne dirigerà due seguiti nel 2002 e nel 2012. Nei fumetti, oltre che con gli alieni, i MiB si scontrano con creature mitologiche e leggendarie, al contrario nella serie cinematografica si occupano esclusivamente di alieni. Il tema del mondo nel mondo è presente in tutta la trilogia: nel film del 1997 bisognava salvare una galassia contenuta nel collare di un gatto, mentre il film del 2002 si chiude con l’iconica immagine del mondo umano contenuto in un armadietto d’un ulteriore e più grande mondo alieno. Nella pellicola del 2012, infine, il meccanismo risolutivo è affidato a un’altra forma di ricorsione, che non il mondo nel mondo: un loop temporale in cui, dagli esiti del protagonista (da anziano), si chiariranno i suoi intenti (da giovane), come se l’agire del sé anziano contenesse in nuce le intenzioni del sé giovane.
The Truman Show (1998) racconta di Truman Burbank che scopre che la sua intera vita è stata un crudele reality show con tanto di inserimenti pubblicitari. Il tema non è totalmente nuovo e due episodi di Ai confini della realtà (The Twilight Zone) lo svelano (A World of Difference del 1960, dove il protagonista svela la finzione perché ode un “ciak!”, e Special Service del 1989, dove il protagonista trova una telecamera celata da uno specchio e capisce di essere in quello che oggi definiremmo reality). Per essere precisi, più che un mondo simulato, il personaggio di Jim Carrey si ritrova letteralmente in quella Goffman ha chiamato “messa in scena”. The Truman Show, malgrado l’assenza di motivi marcatamente cyber, è un perfetto esempio di fantascienza dell’inner space che racconta la dissimulazione delle apparenze e la conquista del mondo reale in maniera speculare a Matrix.
Il tredicesimo piano racconta la storia di un uomo che comincia a entrare e uscire da un mondo simulato al computer, solo per poi scoprire che anche il suo mondo è una simulazione di un altro computer nel mondo reale; si richiama allo stesso romanzo portato sul piccolo schermo da Rainer Werner Fassbinder con Il mondo sul filo nel 1973, Simulacron3 (1964) di Daniel F. Galouye, in cui è raccontata la storia di Douglas, che scopre di essere una simulazione e riesce a diventare reale – proprio come Pinocchio – grazie a un personaggio il cui nome smaschera il richiamo alle forze soprannaturali (Jinx).
Quando Gilbert Ryle scrisse The Concept of Mind (1949) non poteva immaginare che la frase “the ghost in the machine” in esso contenuta per stigmatizzare il dualismo cartesiano (il soggetto sarebbe un fantasma chiuso in un corpo-macchina) avrebbe avuto un futuro così lungo e prolifico.
Il suo allievo Arthur Koestler la parafrasò e ne fece il titolo del suo libro The Ghost in the Machine (1967), che da quel momento sarà d’ispirazione per molti artisti (non ultimo Sting con l’album omonimo del 1981). Uno degli artisti che si ispirerà a questo concetto sarà Masamune Shirow, creatore del manga Ghost in the Shell (1989): l’idea cartesiana di un corpo e di una mente separati di netto, rappresentata dal fantasma chiuso in una “scocca”, è stato il suggerimento ideale per Shirow per descrivere la sua ricca e frastagliata Vorstellung robotica. Dieci anni dopo, ispirati dal quel manga, gli allora fratelli Wachowski gireranno Matrix.
I capitoli della trilogia, tutti scritti e diretti da loro, sono usciti nel 1999 (il primo) e nel 2003 (gli altri due) e narrano di come Neo si rivolta contro Matrix dopo che Morpheus lo ha condotto con sé «nel deserto del reale», per tentarlo con un’offerta mefistofelica: l’immobilità, la sedentarietà e la noia della vasca amniotica e della simulazione virtuale oppure la prospettiva avventurosa di navigare per una realtà instabile esplorandone l’ignoto come un kybernetes (timoniere) che governa un vascello in mare aperto. Neo sceglie l’avventura e ben presto si ritroverà parte di un gruppo di resistenza clandestino che vuole liberare gli umani rimasti nell’alveare di vasche (una sorta di condominio di caverne platoniche o di vasche amniotiche).
Ognuno di questi film, variamente pescando da un vasto e preciso territorio mitologico-letterario e scientifico, ripropone un dilemma che già si trova nel racconto Il mondo in una bolla (The Trouble with Bubbles, 1953, prima edizione in volume nel 1987) di Philipp Dick: dal dopoguerra, infatti, la letteratura fantascientifica aveva resuscitato la contrapposizione fra mondo virtuale e mondo reale (ripreso sempre da Dick in Time Out of Join del 1959), con la differenza che nel racconto le bolle del Worldcraft (o macchina Creamondo) mettono in discussione in principio di realtà del protagonista, mentre la scelta fra pillola rossa e blu lo mette in discussione per rinnovarlo e estenderlo.
Il passaggio dal Worldcraft a Matrix è stato coincidente col passaggio, a metà degli anni Cinquanta, dall’approccio interdisciplinare della cibernetica primordiale all’approccio marcatamente computazionale dell’intelligenza artificiale3: nel momento in cui la macchina viene concepita come un’entità capace di un pensiero suo proprio irriducibile ad altri, è conseguente ammettere che un giorno possa pensare e decidere fuori ogni controllo umano. Anche l’AI potrebbe fare un salto di qualità mettendo in discussione i frame della propria ragione, immaginando che la ragione possa giudicarsi da sola, arrivando kantianamente a porre a tribunale di quest’ultima la propria ragione medesima anziché quella umana. Nel momento in cui ciò è ammissibile, Matrix ha automaticamente luogo se non altro come fantasia persecutoria.
2. Animismo del multiverso. Fra positivismo spiritista e fisica quantistica
La fantascienza occidentale ha sempre dimostrato di credere nel topos della tarda antichità classica che afferma la falsità del mondo materiale a beneficio del mondo sovrasensibile, visto come unica dimensione di verità. È una forma di gnosticismo, descritta in modo efficace e essenziale “sul campo” da Mark O’Connell4, che passa necessariamente per il postulato che esistono diversi mondi/dimensioni oltre il nostro5.
Ma la fantascienza non ha fatto tutto da sola, né ha potuto da sola tradurre i dibattiti classici sulla verità e sulla realtà del mondo. Questa vertigine è arrivata grazie al filtro fondamentale di quell’epoca ambigua che è stata il positivismo anglosassone, spesso commisto alla coeva corrente spiritista.
Nel cumulo di scienza e credenza di quel XIX secolo, le domande che molti scienziati ponevano con toni metafisici riguardavano in realtà una questione fisica: se il mondo inizia da qualche parte nel tempo e sta in un certo punto dello spazio, cosa c’era prima e cosa c’è oltre il mondo?
A questa domanda, i fisici scozzesi Balfour Stewart e Peter Tait risposero «l’universo visibile deve, certamente quanto all’energia trasformabile, e probabilmente quanto alla materia, giungere a una fine»6 per questo «siamo costretti a credere che ci sia qualcosa al di là di ciò che è visibile […] un ordine invisibile di cose, che rimarrà e conserverà energia quando il sistema presente sarà trascorso»7. La conclusione di questo ragionamento di “termodinamica teologica”, come la chiama Philip Ball (2015), è inesorabile: «la vita, come la materia, ci viene dall’Universo invisibile»8. Difficilmente si potrebbe alludere al “sotto” e al “dietro” dell’apparenza in termini più fervidi e netti. Forse solo Lewis Carroll c’era riuscito, sintetizzando questa tensione liminale con Through the Looking Glass, and What Alice Found There (1871).
Di avviso simile fu il fisico Fournier d’Albe che in Two New Worlds (1907) teorizzò l’esistenza di un universo “spirituale” interno e parallelo al nostro basandosi sulle nuove ricerche sulla struttura dell’atomo. Come un perfetto neoplatonico, Fournier d’Albe descrive l’esistenza di due mondi per noi invisibili: l’“inframondo” microscopico di atomi e elettroni e il “sopramondo” macroscopico di cosmo e galassie. L’anno seguente approfondisce l’argomento con New Light on Immortality (1908), in cui l’intento è riesaminare il concetto di anima alla luce delle scoperte della fisica atomica. Nel libro si domanda se l’anima non sia “materiale”, cioè composta di una materia sottile (che, inutile dirlo, è invisibile), e dà anche un nome alla sua unità atomica: lo «psicomero», che «non possiamo aspettarci ragionevolmente di osservare»9, ma su cui non manca di ragionare, quantificando addirittura il suo peso in una cinquanta di milligrammi (giusto l’anno prima, il medico statunitense Duncan MacDougall aveva quantificato il peso dell’anima in ventuno grammi).
Ancora nel 1917, il fisico William Barrett10 fu sedotto dagli studi di psicologia di William Crookes (fisico, scopritore del tallio) e immaginò l’esistenza di mondi paralleli che scorrono nella nostra stessa realtà, ma in una dimensione che non vediamo, abitata da «daimonia buoni o cattivi, “elementali”»11 ai quali dobbiamo stare attenti per scongiurare l’«invasione della nostra volontà»12 da parte loro.
L’ipotesi che esistano universi paralleli nella nostra stessa dimensione e accessibili da questa è arrivata fino a noi con la teoria delle stringhe negli anni ’70 del XX secolo, sotto le denominazioni di “energia oscura” e “materia oscura”. La teoria che, in un’intercapedine del nostro spazio celata alla vista e apparentemente vuota, ci sia invece qualcosa sembra confermato dalle osservazioni del 1998, quando è stato misurato che l’espansione dello spazio è in accelerazione: qualcosa che non vediamo innesca questa accelerazione, ma possiamo farcene un’idea sapendo che la materia oscura occupa circa il ventisette per cento dell’universo, che l’energia oscura ne occupa il sessantotto e che resta visibile solo il cinque per cento. In questo “multiverso” ci sono infiniti universi paralleli, o “universi-bolla” come li hanno definiti i ricercatori dell’Università di Uppsala nel 2018.
Già ora il tracciato della dissimulazione/rivelazione nella cybercultura assume una fisionomia: l’idea che altre realtà scorrano di fianco alla nostra è solo in prima battuta il presupposto dell’ossessione paranoide per ciò che sta “sotto” o “dietro” il visibile, in un secondo tempo è invece il presupposto della frammentazione e moltiplicazione dei mondi.
L’immaginario che evochiamo non è molto diverso da quello di Flatlandia (1884) di E. Abbott, che sembra esponenzializzato dalla famosa e discussa M Theory, che dalla compattezza delle quattro dimensioni canoniche dello spaziotempo arrivò a ipotizzarne sette, porose e sfaccettate: viaggiare da un universo all’altro richiederebbe solo passare attraverso queste membrane oscure, secondo quella che ormai è l’ipotesi-base dei mondi paralleli.
Il correlato inevitabile di questa concezione è la domanda su noi stessi e sulla nostra collocazione nel multiverso. Pascual Jordan, assistente di Bohr, immaginò una correlazione fra i fenomeni psichici della dissociazione e della schizofrenia, cioè i fenomeni di scissione della personalità e del sé, e quelli che Bohr aveva definito “stati quantistici complementari”, desumendone che a questi stati era dovuta la coesistenza dei diversi sé. Analoga suggestione quella del fisico Max Tegmark: «l’atto di prendere una decisione fa sì che una persona si scinda in copie multiple»13, anche se ognuna – nota Brian Green – «è te»14 comunque.
Ma perché cercare un mondo “vero” anziché ammettere che tutti i mondi del multiverso possono occasionalmente esserlo? Come detto da Pierre Lévy, il cyberspazio separa la totalità dall’universalità e la estingue, ma l’istinto alla totalità – se così vogliamo chiamarlo – rimane operativo e pone arbitrariamente l’idea che, se non c’è totalità, non c’è verità15. Per cui la presuppone e ricerca oltre il simulato.
In breve, seppure la questione del mondo simulato sia antica, è solo col XIX secolo che viene estrapolata dal suo contesto classico e posta in modo sistematico nelle scienze della natura, anche se per ragioni iniziali non del tutto scientifiche.
Passando per le speculazioni di Stewart, Tait, Fournier d’Albe, Barrett e i loro contemporanei, l’ipotesi filosofica del mondo apparente si trasforma in una teoria scientifica aurorale della fisica moderna; infatti, quest’ultima porterà alle estreme conseguenze il concetto degli universi paralleli (esploso con la M Theory), dando materiale agli artisti per un reboot del vecchio mito. In qualche modo, attraverso queste opere “d’intrattenimento”, la sci-fi ci ha abituati fin dall’alba della cibernetica al multiverso dell’attuale realtà virtuale come presagendola o suggerendola.
Se possiamo dare a questa sintetica ricostruzione il valore di genealogia, seppure parziale, del mito del mondo simulato nella cybercultura, aggiungiamo un’ulteriore annotazione sul concetto di inner space.
3. Déi privati
L’espressione inner space risale all’articolo di un autore di culto del cyberpunk, J.G. Ballard, intitolato Which Way to Inner Space (1962). La distinzione focale, da quel momento, è fra inner space e outner space. Quest’ultimo, prediletto da autori come Asimov, racconta storie ambientate nello spazio siderale e costituisce la versione hard della fantascienza. Il primo, invece, è una versione soft della fantascienza in cui non è necessariamente l’astronave a viaggiare fra comete e buchi neri, ma lo sguardo umano che naviga nelle proprie galassie interiori16. Esempi di questo approccio, per rimanere a Ballard, sono Crash o Il condominio, dove ogni volta la tecnologia ha il ruolo di fomentare gli istinti più oscuri delle persone, portandole regolarmente verso un surreale punto di non ritorno (es. ibridarsi con le automobili o regredire allo stato selvatico in un condominio di lusso).
La produzione fantascientifica sul mondo simulato viene declinata secondo il canone dell’inner space: saltare da un mondo all’altro, in ogni narrazione del genere, non è mai esente da rischi e conseguenze per sé. Non si tratta solo di passare da un mondo all’altro, ma da uno stato di coscienza a un altro e poi eventualmente a un altro ancora e così all’infinito, anche fino a perdersi come in Inception (2010).
La scelta fra pillola blu e rossa inscena la scelta fra mondo apparente della percezione immediata (secondo la versione classica culminata in Cartesio) o della simulazione virtuale (secondo la versione cyberpunk), ormai equivalenti, e mondo reale a cui si accede per mezzo della rivelazione, ma se i registi di Matrix hanno menzionano esplicitamente il riferimento al mito della caverna di Platone, il tropo della pillola messo all’opera nel film ricorda più direttamente il concetto di pharmakon, la pozione capace di curare o di avvelenare usata da pensatori agli antipodi come Gorgia17 e Platone18 stesso per definire rispettivamente due tecniche mediatiche ai loro tempi rivoluzionarie: la parola retorica e la scrittura.
Il passaggio tecnologico al web 2.0 ha contrassegnato il canonico momento di shift da una concezione del mondo precedente (detta, a posteriori, falsa) sostituita da una seguente (detta vera, frutto di rivelazione); davanti alle novità “assurde” di un nuovo corso, molti preferiscono credere che il male sia colpa di un nemico, di un’intelligenza occulta che manovra le cose in modo da farle fallire e ciò mette in gioco automaticamente la possibilità di un’alternativa, di un mondo “altro”, che si può perseguire o con la rivoluzione o con l’introspezione; del resto, sono già noti all’antropologia, alla sociologia e alla psicopatologia i casi di otaku e hikikomori che hanno riprodotto nel mondo contemporaneo, per mezzo delle attuali tecnologie, i modelli comportamentali della congregazione, della setta, dell’eremitaggio, e che, come i mistici e i padri del deserto, cercano o di costituire una comunità di simili o l’isolamento per difendersi dal mondo esterno.
Quell’aggiornamento del moon hoax noto come millennium bug è stato il primo fenomeno millenarista del XXI secolo e, in combinato disposto con l’11 settembre, ha inaugurato una serie di fenomeni regressivi che sembrano mimare i movimenti dell’antichità quando venne meno il dominio di Atene nel III sec. d.C.
Come i neoplatonici, i singolaristi credono nell’avvento della “singolarità tecnologica” e prospettano un futuro in cui la nostra soggettività continuerà a esistere indipendentemente dal corpo e fusa in un’entità generale entro cui tutte le singolarità si trovano a confluire, come nel quarto episodio della terza stagione di Black Mirror “San Junipero”.
A questi fenomeni se ne sono aggiunti altri, come il cyberbullismo, il revenge porn, il delirante proliferare di ogni pride19 fosse anche l’orgoglio di sociopatici e anoressici, e altro ancora (cannibalismo consensuale20, incel, blue whale ecc.), ma il cliché gnostico non viene meno per la violenza di questi atti; tanto perché anche gli gnostici in alcuni casi ricorrevano alla violenza, quanto perché il nostro contesto culturale e sociale non è troppo diverso da quello tardo-antico, nei suoi aspetti fondamentali; anche adesso crollano i riferimenti culturali assodati e vengono sostituiti dai nuovi coi prevedibili effetti della violenza spicciola e dell’ideologismo e le peculiari novità perturbanti palesatesi col web 2.0 si uniscono a teorie ereditate dalle filosofie iniziatiche gnostiche e mistiche tramite i filosofi neoplatonici del Rinascimento e le correnti spiritistiche del positivismo, producendo un ibrido che trova la sua espressione nella costruzione di un’epica del soggettivo senza soggetto21: è a questa soggettività, porosa come quella dei personaggi di Ghost in the Shall, che tocca agire.
E del resto, cosa c’è di più epico che sorpassare le colonne d’Ercole di se stessi e del mondo e compiere il folle volo verso la red pill, l’esterno della caverna, in una parola verso una verità totale che può letteralmente cancellare e riscrivere la coscienza?
4. Device e devianze
Il messaggio esplicito di queste storie è che, dopo che si sono toccati i confini del mondo simulato e si è scoperto che è tutta una scena, la scelta può essere o quella cinica di accettare la simulazione per tornaconto personale o quella idealistica di farsi agente della verità, secondo un certo palinsesto morale. Allo stesso tempo, le situazioni narrate riportano di frequente alla narrazione pigmalionica dell’oggetto inanimato, del fantoccio o automa, che prende vita e/o diventa “umano”. L’innamorarsi delle immagini, scolpite o dipinte, prima di diventare noto come sindrome di Stendhal, era conosciuto dai greci come agalmatofilia. Questa componente, condivisa da Pinocchio così come da Her, è l’indizio di una caratteristica del comportamento umano, che può rivolgere una tensione emotiva simile a quella filiale e amorosa, oltre che su un simulacro, su una simulazione. Anche sul simulacro della verità e del mondo fuori dalla simulazione.
Il potere di pharmakon delle parole (per Gorgia) e della scrittura (per Platone), nel momento storico in cui la scrittura diventa quella dei protocolli della rete, viene sistematicamente attribuito alla realtà virtuale22 dalla fantascienza dell’inner space a causa di un’analogia essenziale: anche davanti alla scrittura binaria della simulazione, nel bene e nel male, siamo indifesi, come col pharmakon. Di questa attribuzione, da un lato la corrente beat e psichedelica dà una versione metafisica dove il trip nell’inner space è un momento di evoluzione degli stati interiori in cui si acquisisce una verità superiore, dall’altro lato compare una versione multiversale in cui l’inner space apre l’interrogazione etico-epistemologica sulla naturale fragilità della realtà, dell’identità e del mondo umani (cosa fare se si scopre che il mondo è una simulazione? Cosa ci aspetta fuori dalla simulazione? Cosa ne è della responsabilità e della giustizia nel multiverso? Ecc.).
Il pharmakon delle tecnologie digitali può alleviare questa affezione feticistica per l’agalma della verità permettendo di attraversare il multiverso, in qualche modo armonizzando l’uomo con la frammentazione (o permettendogli di riderne, come succede alla fine di Men in Black II); oppure può avvelenarsi se, tramite esso, tenta nostalgicamente di ricostituire una qualche totalità (fosse anche quella paranoica del complotto23).
Naturalmente, anche in caso di cura, l’assunzione del pharmakon non è senza effetti collaterali: il passaggio al multiverso svuota di ogni senso la distinzione fra vero e simulato, proprio come accade per i cervelli in vasca di Putnam. Nell’infinità di mondi e dimensioni, un mondo simulato sarebbe solo un mondo fra i tanti, così come un mondo reale.
5. Fuori dove?
Ciò che comincia a emergere distintamente dopo questo primo ventennio del XXI secolo è un’angoscia che affiorava in modo incostante nei film citati e che adesso sembra matura: l’angoscia che, pur usciti dalla simulazione, non ci sia il mondo reale/vero a attenderci bensì il nulla o, peggio, il multiverso, che elimina il mito pre-moderno di un mondo vero, perfetto, pacificato e non costantemente scosso dalla differenza.
È noto che la forma della verità, per come la intendiamo oggi comunemente, cioè contrapposta all’opinione (dòxa), discende da Parmenide e Platone, dunque il mondo “vero” è tale nel senso inteso germinalmente da loro: la verità è totale, immutabile, universale, sovraordinata, eterna, perfetta, bella, buona ecc. come l’Internet armonizzante del “villaggio globale”. In effetti, l’idea che si possa uscire dalla simulazione e entrare nella realtà (intesa nel senso forte già descritto) è squisitamente platonica e metafisica.
La corrente sofistica, incarnata da Protagora e soprattutto da Gorgia, aveva tagliato alla radice ogni problema relativo alla verità, producendo una definizione di verità parziale, prospettica, contingente, situazionale, dialettica: per Protagora la misura o regola delle cose è l’uomo – con tutte le sue imperfezioni – e per Gorgia la verità non c’è e se c’è non è conoscibile e se è conoscibile non è comunicabile. Insomma, una verità molteplice e particolare come i messaggi assillanti che riceviamo dal web (la versione perturbante e non armonizzante di Internet).
Col prevalere della verità iperurania di Platone, i pensatori successivi si sono misurati col suo concetto attraversando alterne fortune. Stoicismo, scetticismo, cinismo, nichilismo, epicureismo sono altrettante risposte alla verità platonica, ma attraverso quest’ultima Platone non affermava unilateralmente un principio a cui rispondere, bensì contrattaccava alla dottrina gorgiana per la quale non solo l’uomo non era misura di nulla, ma era anche radicalmente escluso da ogni verità “rotonda”. Quest’ultima, però, grazie a Platone ha prevalso, innescando critiche prive di particolare seguito, e il trilemma di Gorgia non ha avuto eredi.
È però possibile che la più plausibile reincarnazione dello scontro fra questi due “mondi” filosofici si sia ripresentato con altre spoglie, segnatamente nella produzione fantascientifica del Novecento, con un’acme nell’ultimo scorcio del millennio (complice lo shift culturale da una concezione precedente-falsa a una seguente-vera innescato dalle nuove tecnologie).
6. Le tribù del multiverso. Dalla virtù alla virtualità
L’incidenza del web negli stili di vita ha portato una rapida serie di cambiamenti radicali nel nostro modo di pensare e di agire, anche testimoniati dalla tendenza sintomatica a attribuirgli qualunque nefandezza o a esaltarlo come un demiurgo.
Riguardo al potere della rete di plasmare la società, possono spendersi argomenti comuni a qualunque potere creatore che indistintamente produce ciò che definiamo poi male o bene. Internet, finché è rimasto appannaggio di un gruppo limitato di persone selezionate, è stato investito del potere di inverare un armonico “villaggio globale” e di portare a tutti una cascata di conoscenze prima inarrivabili; al contrario, oggi che è un prodotto quasi universale, ha il potere perverso di scatenare il caos, di renderci vulnerabili, tanto da preoccupare i governi mondiali con strategie sempre più fini di cybersicurezza. Scopriamo così che Internet non ci porta solo o principalmente conoscenza, bensì migliaia di messaggi indesiderati, truffe e virus.
Dalla pace nel mondo alla “guerra civile globale”, degli effetti in particolare del web 2.0 si è detto tutto e il contrario di tutto: specie per i media digitali, nel cui caso si è parlato di “demenza tecnologica” e “overdose cognitiva”, secondo l’idea che – detto con una iperbole – l’uso quotidiano di motori di ricerca e social media abbia abbassato la media del QI occidentale.
L’osservazione più frequente è che, da quando ognuno ha modo di collegarsi a un groviglio sempre più vasto e intricato di piattaforme, sono aumentati fenomeni violenti in aspetti della vita quotidiana dov’era pressoché assente (almeno apparentemente): un esempio per tutti, i forum dove spesso pubblicano i propri intenti dei futuri stragisti che in quel luogo virtuale hanno trovato incoraggiamento e spinta per i loro atti.
Per avere un’idea di quanto tempo ed energia personale spendiamo on line paragoniamola – immedesimandoci nell’immaginario cyberpunk – all’energia elettrica vera e propria che viene consumata. Da quando esistono i cellulari prima e gli smartphone adesso, il numero di device elettronici in circolazione è aumentato esponenzialmente. Dagli inizi del XXI secolo sono comparsi sulla Terra decine di miliardi di elettrodomestici che fino a qualche anno prima non erano nemmeno stati inventati (per esempio l’Iphone). Fino al Novecento gli elettrodomestici potevano essere il televisore, il tostapane, la lavatrice e simili, dagli anni Novanta anche un computer, di ognuno un esemplare per casa, essenzialmente ad appannaggio del mercato occidentale mediamente benestante. Fra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, questo mercato si è esteso al resto del mondo e oggi si contano (oltre ai vecchi elettrodomestici) sette miliardi e mezzo di schede sim in attività, dunque presumibilmente una cifra simile di cellulari. Questi nuovi oggetti vanno alimentati ogni giorno almeno un’ora o due24; si prenda il consumo energetico annuo di un cellulare, lo si moltiplichi per sette miliardi e mezzo e diventerà facile comprendere perché la parola chiave del momento è “sostenibile”; per essere sostenibili, secondo l’inconscio desiderio di ogni ecologismo che qualcuno ponga un limite (etico, prima che giuridico) allo sfruttamento ambientale, la maggior parte delle persone dovrebbe usare i moderni device il meno possibile, giusto in caso di necessità, evitando anche di spendere una proporzionale quantità di tempo e energia personali nel visionare le tante cose superflue che attraverso quegli schermi e quei cavi ci arriva; eppure è un punto che viene ignorato, insieme a molte altre pur imponenti conseguenze inintenzionali del web 2.0.
L’abbondanza di contenuti di cui fruiamo ha innescato in un’ampia fetta di consumatori la percezione che il mondo simulato dal virtuale sia una dépendance funzionale del mondo reale a volte più reale ancora.
Mentre a metà degli anni Novanta s’innesca lo shift fra cultura moderna realista e cultura postmoderna della simulazione25, Sherry Turkle26 parte da questa constatazione per la sua teoria del sé desiderato, in cui il mondo virtuale sarebbe il campo dove il soggetto può sperimentare parti recondite della propria personalità, fino a intraprendere un vero e proprio gioco in cui scivola continuamente dalla posizione autoriale a quella finzionale, come proposto in uno schema delineato a suo tempo da E. Goffman27.
L’indecisione sul proprio status, tipica della specie umana, assume delle forme peculiari in relazione alle nuove tecnologie. Se molti ancora ritengono che il virtuale sia il boudoir della realtà (lo stereotipo del rispettabile impiegato che guarda pornografia violenta perché è fondamentalmente un sadico), questa idea è in buona parte falsa perché non si tratta di un angolo oscuro della realtà bensì di una realtà alternativa (il nostro impiegato, lungi dall’essere un sadico, potrebbe star solo sperimentando una parte immaginaria del suo sé che altrimenti non avrebbe nessuno spazio, né più né meno come se andasse su un’isola deserta per sentirsi Robinson Crusoe; ciò non significa che vorrebbe vivere davvero su un’isola deserta come Robinson). Non è detto che la copia virtuale che produciamo sia minimamente attinente al nostro sé reale e non è detto che il suddetto impiegato cercherebbe mai di portare nel reale il suo sé virtuale. Anzi, come ogni doppio fin dalle considerazioni fondamentali di Otto Rank, deve rimanere relegato dietro lo schermo per non diventare pericoloso (e comunque, se la fantasia dovesse infiltrarsi nella realtà, pur senza diventare dannosa, rischierebbe di perderebbe ogni appeal e non essere più la fantasia-rifugio del soggetto).
L’impressione prevalente, invece, è che, una volta uscito dalla ristretta cerchia dei primi utenti contenuti nel leggendario “ARPANET Directory” (1978) ed entrato nel mondo through the looking glass, il web abbia avuto il potere di perturbare la realtà, muovendo grandi quantità di “passioni tristi” come odio, rabbia, paura, angoscia; come se, quell’energia fenomenale che spendiamo a visionare lo schermo del nostro device, fosse convertita dal web in energia oscura.
Originariamente – con la comunità ristretta – chi si fosse comportato male sarebbe stato immediatamente espulso e allontanato; ma con le possibilità delle nuove tecnologie diventa praticamente impossibile risalire all’autore di un messaggio (se ha le competenze necessarie) e i messaggi tossici rimangono indefinitamente on line attivi e coinvolgenti.28
Dopo quel radioso inizio, di fronte agli usi devianti delle nuove tecnologie, è naturale che la mentalità tecnologica si faccia domande analoghe a quella dei filosofi medievali: “se Dio è buono, perché esiste il male?” viene adattata sostituendo Dio con Internet. Le risposte a questa domanda, come nel Medioevo, sono innumerevoli e vertono principalmente sull’uso sconsiderato che ne fanno le persone. Come molti importanti pionieri dei social media hanno dichiarato da quando è scoppiato il caso di Cambridge Analytica (e anche prima, specie davanti a casi eclatanti di hate speech o attentati stragisti), mettere in connessione le persone ha avuto effetti devastanti perché non erano pronte a un simile balzo tecno-culturale. Così, anche in questo caso, come nel Medioevo, se si cerca l’origine del male bisogna puntare la luce nella natura imperfetta dell’uomo, che prova piacere nell’usare Internet non tanto per diffondere conoscenza bensì per sfogare frustrazione e – come nei riti sacrificali29 – giungere alla catarsi.
In questo senso il web assume pienamente un significato demiurgico, poiché è la sua stessa conformazione a dettare la ricorrenza di tali riti e la continuità del processo di frammentazione che li rende necessari.
Se il portato di novità della cybercultura è di «costruirsi sull’indeterminatezza di un qualsiasi senso globale»30, questo portato è merito della sua forma, che
«dissolve la prammatica della comunicazione che, dall’invenzione della scrittura, aveva riunito insieme l’universale e la totalità. Ci riporta, in effetti, a una situazione precedente alla scrittura – ma su un’altra scala e in un altro orizzonte – nella misura in cui l’interconnessione e il dinamismo delle memorie on line fanno nuovamente condividere il medesimo contesto, il medesimo immenso ipertesto vivente, ai partner della comunicazione».31
Il tramonto della scrittura, ridotta a gergo scritto, non preannuncia tanto la sola decadenza di una civiltà per far posto a un’altra infinitamente parcellizzata, quanto il tramonto di quel referente (l’idea di un “tutto”) che consente agli individui d’identificarsi32 come parte di un coacervo comune e organico. In primo luogo è così che arriviamo a una società divisa per gruppi i cui valori non sono traducibili nei valori degli altri gruppi, riproducendo di fatto un processo di tribalizzazione in cui ogni tribù è irriducibile a un paradigma comune. In secondo luogo, l’universalità senza totalità rappresenta per l’individuo un solvente dell’identità – intesa come apparato monolitico – e “inventa” l’individuo modulare del XXI secolo, individuo già in parte reale e in parte virtuale. Così, anche se «il timore di una “derealizzazione del mondo” è infondato»33, le ansie collettive trovano il loro oggetto di spostamento nella logica-base di ogni complotto: che ci sia qualcosa “sotto” o “dietro” ciò che è visibile, che questo qualcosa sia il mondo reale oltre la simulazione e che la simulazione vada abbattuta, secondo il tradizionale modello metafisico per cui bisogna lottare contro gli inganni dei sensi che ci nascondono la verità.
Indagando questa ipotesi si possono cogliere – fra i già menzionati movimenti regressivi negativi – anche indizi di una rielaborazione positiva in chiave contemporanea del relativismo “forte” di Gorgia, la quale sembra prospettare un mondo reale dotato di regole senza bisogno della garanzia di una verità totale, in un movimento di multiversalizzazione che adatta la precedente concezione della rete da oracolo preveggente e armonizzante a oracolo provvisorio e perturbante, senza nostalgismo o complottismo ma atteggiamento aperto, avventuroso e avvertito.
Malgrado fenomeni “infantili” come le esplosioni di violenza, il ritiro sociale o le ideologie ridotte a congerie di frammenti, trascorsa la frustrazione per non poter tradurre o imporre all’esterno le proprie istanze, anche se potranno abbandonarsi a un nichilismo nostalgico della verità perduta o a velleitari tentativi di restaurazione della verità per mezzo della tecnologia, i legami fra il topos rivelativo del “mondo nel mondo” e gli sviluppi che ne ha dato la cybercultura col multiverso lasciano pensare che alle tribù della società 2.0, nate dalla frammentazione tecnologica di questi anni, non mancheranno i presupposti per realizzare un tipo di relativismo capace di porsi anche come limite etico senza bisogno di simulacri o simulazioni animiste implicanti qualsivoglia totalità.
Note
1Qui, come in altri punti del testo, il termine “reale” subisce uno spostamento di senso fino a “vero”. Per non aggiungere note ridondanti, il contesto guiderà di volta in volta il lettore per stabilirne il senso.
2King rifiutò di comparire nei riferimenti del film per lo stravolgimento che era stato fatto della sua trama, tuttavia già nel racconto i nomi di Circe e Pan richiamano l’immaginario mitologico.
3Arbib, 1968.
4O’ Connell, 2018, pp. 74-80.
5Nel terzo dialogo del De l’infinito, universo e mondi (Londra, 1584), Giordano Bruno già ipotizza l’esistenza di infiniti mondi e pianeti e dei loro abitanti.
6Stewart e Tait, 1876, p. 64.
7Ivi, p. 157.
8Ivi, p. 180.
9Fournier d’Albe, 1908, p. 147.
10Barrett, 1917.
11Ivi, p. 113.
12Ivi, p. 250.
13Tegmark, 2003, p. 48.
14Green, 2011, p. 229.
15La verità è strettamente connessa alla totalità: bisogna dire “tutta la verità e nient’altro che la verità”, non dire tutta la verità significa essere reticenti o mentire per omissione, una verità parziale (che dunque deve poggiarsi a elementi esterni a sé) manca dell’attributo classico della verità d’essere causa sui. Senza totalità non possiamo concepire la verità, da qui il ragionamento “se c’è un mondo oltre questo, questo deve essere falso” che non elimina la totalità ma la sposta in quel certo “oltre”.
16Questo criterio vale anche nel caso in cui la storia si svolga su un’astronave nello spazio o su un pianeta alieno, per esempio in Solaris il viaggio rimane quello dell’interiorità umana nonostante sia ambientato in una stazione spaziale in orbita.
17Gorgia, Hel., Fr. 82 B 11 BK (14).
18Platone, Phdr., 274b-275c.
19Romano, 2015, pp. 48-51.
20Si veda il caso eclatante di Armin Meiwes, arrestato nel 2002, che aveva pubblicato un annuncio nel forum “Cannibal café” dicendo esplicitamente di voler mangiare qualcuno e ricevette centinaia di risposte affermative.
21Questa epica non può essere del soggetto in quanto, presso la cybercultura, l’idea stessa di un soggetto che afferisce a una coscienza unitaria ha lasciato il posto alla coscienza deflagrata di una entità soggettiva più ampia e frastagliata.
22Oggi questo legame fra tecnologia digitale e pharmakon è diventato più evidente (Cfr. A. Granelli, 2018).
23È nota la provocazione per cui non è la gente, ma il mondo a essere diventato paranoico. Il complotto è proprio l’effetto deviante di un improvviso aumento della complessità in una situazione: più che paranoico, il mondo diventa complesso e costringe le persone alla “paranoia”, cioè a trame di spiegazione della realtà (in mancanza di conoscenze adeguate) necessariamente inventate e immaginarie in molti punti, con nessi logici laschi se non abusivi.
24Al consumo energetico dei cellulari andrebbe aggiunto, come minimo, il consumo del router, del laptop, del tablet e eventualmente d’un secondo cellulare (per esempio il telefono aziendale); senza calcolare altri accessori come cuffie cordless, ebook reader, auricolari ecc.; senza tenere conto che gli elettrodomestici di nuova generazione non sono mai davvero off (pensiamo all’eterna spia rossa sul televisore); e senza contare che anche il piccolo trasformatore all’interno del caricabatterie consuma energia se resta nella presa, pur senza il telefono collegato.
25Turkle, 2005.
26Turkle, 2012.
27Particolarmente interessante il tema del frame introdotto da Goffman. Erving Goffman (1922-1982) ha scritto tre libri che possiamo vedere concatenati: The Presentation of Self in Everyday Life (1959), Encounters: Two Studies in the Sociology of Interaction (1961) e Frame Analysis: An essay on the organization of experience (1974). Quest’ultimo lavoro inaugura una “sociologia del frame”, del “livello”, in una parola della “cornice”, partendo dagli esperimenti degli anni ’50 di G. Bateson con gli animali degli zoo: com’è possibile, si domanda Bateson, che gli animali distinguano i combattimenti giocosi dai combattimenti seri? Ipotizza allora l’esistenza di indicatori che consentono alla situazione di assumere il suo senso. Goffman espande la domanda e la porta nel territorio della sociologia, sostenendo che questi indicatori funzionano da frameworks: «Quando l’individuo della nostra società occidentale riconosce un particolare evento, tende […] a implicare in questa risposta una o più strutture o schemi d’interpretazione di un certo tipo che può essere definito primario. Dico primario perché l’applicazione di tale struttura o prospettiva interpretativa è vista da quelli che la applicano come non dipendente da o riferibile ad alcuna interpretazione precedente o “originale”; infatti una struttura primaria è considerata capace di tradurre ciò che altrimenti rappresenterebbe un aspetto senza significato della situazione, in qualcosa di significativo» (Goffman, 2001, p. 65). La domanda che analogamente potremmo porci è: come fa un essere umano a capire che quella che vede è la realtà e non una simulazione? Quali sono i frame della realtà? Domande che, seguendo l’esperimento di H. Putnam (1981) sui cervelli in vasca, non avrebbero risposta, perché se la simulazione è l’unica cosa che conosciamo come mondo, non ha senso definirla una simulazione.
28Dichiarazione di Danny Hillis dal documentario Lo and Behold, Reveries of the Connected World di Werner Herzog (2016).
29Girard, 1992.
30Lévy, 1999.
31Ivi, p. 114.
32Il meccanismo sacrificale è un meccanismo mimetico, come sostiene Girard.
33Lévy, 1999, p. 232.
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