Esiste un forte desiderio di essere oggetto della macchina dello spettacolo da parte delle schiere di gruppi sociali esclusi dalla circolazione della ricchezza (o convinti di esserlo). È il desiderio di diventare la merce-spettacolo prodotta dalla macchina, a condizione di essere esaltati in questo spettacolo come “vittime”. Ciò esprime primariamente la collocazione che nello spettacolo hanno gli esclusi e in secondo ordine questa collocazione viene interiorizzata dai diretti interessati e diventa il loro desiderio. Si precisa così il ritratto di un volgo socialmente invidioso, recriminante e non autosufficiente, perfettamente incapace di far valere le proprie ragioni che non armandosi di fiaccole e forconi.
Così tali gruppi accettano di buon grado di diventare il pupazzo della tv commerciale e della comunicazione politica, sempre che possano lamentarsi di qualcosa, mettendo in scena lo spettacolo della propria inermità e disgrazia.
Questo rapporto in cui si sfrutta il media per poter spettacolarizzare se stessi attraverso la messa in mostra plateale del proprio disagio (cioè un rapporto in cui si appare come vittime di un “nemico” per accusarlo e si viene scritturati come vittime della comunicazione), permette di capire in che modo le considerazioni sulla fotografia di Pierre Bourdieu servano per leggere i fatti, per esempio, di Torre Maura.
Nel suo lavoro del 1965 sulla fotografia, Bourdieu identifica la foto come una pratica di classe. Cosa dicono gli operai a proposito del fare fotografie? Che sono impossibilitati, dal denaro o dal tempo, a comprare attrezzature migliori o a dedicarsi per ottenere un risultato che definiscono ottimale; ossia trovano motivazioni al fatto che, data la loro disposizione nella società, gli è preclusa la possibilità di migliorare in questo hobby, percepito come una cosa non adatta a loro. «“Non è per noi”, cioè, quest’oggetto o questa attività non esistono per noi come possibilità oggettiva»1. I più realistici disprezzano le apparecchiature tecniche perché riescono a ottenere risultati altrettanto buoni con l’applicazione personale e con stratagemmi meccanici: riescono a tenere insieme tanto il fatto di essere esclusi dall’acquisto e dall’aspirazione a fare foto migliori con una valutazione oggettiva delle capacità tecniche di strumenti più costosi. «Ostentare disprezzo per le raffinatezze degli oggetti tecnici in nome di una raffinatezza da esperti è il modo più realistico di riconoscerne l’inaccessibilità senza rinunciare alla loro perfezione»2.
Per analogia, queste considerazioni, una volta sovrapposte alle rivendicazioni degli abitanti di Torre Maura, danno una lettura applicabile al generale clima di “cattivismo” diffuso in Italia e altrove sul tema accoglienza e altri assimilabili alla categoria “buonismo”. Se il buonismo è una forma di denigrazione (una ricollocazione in basso) dell’altro, il cattivismo è la cecità di fronte alla propria incapacità tecnica di argomentare.
Quando queste persone dicono che “non ce la facciamo più” o che “non possiamo accoglierli tutti” o che “se li prendessero ai Parioli” esprimono la stessa impossibilità interiorizzata dall’interdizione sociale: loro hanno altro a cui pensare, alla loro vita difficile in un quartiere disagiato, letteralmente “non possono permettersi” la generosità o la tolleranza. Ostentano un’incapacità cronica di agire secondo i meccanismi di una società avanzata.
Se qualcuno di loro facesse riferimento ai diritti umani sarebbe un “radical chic” ossia, nel linguaggio di Bourdieu, un “insignorito”. L’esempio nel saggio è in riferimento ai contadini dei piccoli centri che sviluppano una passione troppo estetica per la fotografia, si dotano di borselli appositi e attrezzature, insomma, escono dall’uso socialmente prescritto della fotografia: immortalare il gruppo sociale familiare nella sua unità nei momenti stagionali prescritti (feste di compleanno, matrimoni ecc)3. «La disapprovazione dipende non solo dalla natura dell’innovazione, ma anche dalla condizione e dallo status dell’innovatore. Associata alla vita contadina, la pratica della fotografia è configurata come una manifestazione della volontà di giocare al cittadino. Di conseguenza, essa appare come una rinnegazione da parvenu. Lo si constata attraverso l’atteggiamento dei campagnoli nei confronti dei “villeggianti”, cioè dei nativi del villaggio che ritornano a passarvi le loro vacanze. Ogni loro minimo atto diviene oggetto di commenti e il più lieve strappo alle consuetudini è avvertito come presunzione e come sfida»4. È il valore che il campagnolo dà alla frase “parla come mangi”, quando l’insignorito usa parole come “diritti” o “accoglienza” o “spread”.
È quindi un gruppo sociale che dichiara implicitamente di non avere la possibilità oggettiva di accedere alle pratiche del gruppo sovraordinato, di non possedere neanche la competenza per argomentare il dissenso alla pari con tale gruppo. Anzi, l’enunciato è un rifiuto palese degli stili del gruppo sovraordinato, nella classica dinamica città-paese che Bourdieu dichiara dominante nell’ambito della fotografia.
Come poi farà nel lavoro del 1979, La distinzione, Bourdieu nota che si tratta sempre della collocazione di classe quando un gruppo sociale si autoesclude, con le più diverse perifrasi, da una pratica ritenuta della classe dominante. In questo la vittimizzazione (“Non posso, non fa per noi”) gioca una parte fondamentale: il sistema dell’infotainment relega gli esclusi al ruolo di vittime, gli esclusi reclamano per sé tale ruolo in quanto si ritrovano nell’impossibilità di usufruire di strategie da classe dominante.
Quando il quindicenne Simone tiene testa al gruppo di neofascisti intervenuti per l’occasione a rastrellare voti, non lo fa avvalendosi di strategie comunicative della classe dominante, non fa riferimenti “signorili” ai diritti, ma lo svolge sullo stesso piano del neofascista. Agisce come l’operaio che disprezza i mezzi tecnici più costosi e raffinati perché ottiene buoni risultati anche con le sue attrezzature. Senza mettere in gioco il birignao noto dell’assistenzialismo e dell’umanitarismo, gli basta l’evidenza che i presenti sono duecento e i rom settanta per designare questi ultimi come “minoranza”.
Resta fattuale, di controcanto, l’impenetrabilità di questa analisi per i gruppi sociali culturalmente dominanti, ben rappresentati tanto dal carrozzone politico che immediatamente ha vampirizzato la figura di Simone, quanto da Elena Stancanelli, autrice di libri e articoli dimenticabili, che fa valere un ribaldo fiorentinismo quando rimarca che Simone non sa parlare italiano: Stancanelli rispecchia il sentire di quei gruppi che non accettano di venir in contatto con usi alternativi delle proprie competenze e diffama chi lo fa, rappresentando così un’imbarazzante empasse culturale tanto quanto i neofascisti di Casapound. Siamo in presenza, più che del radical chic, dello snob, nel senso etimologico di persona priva di gradi di nobiltà che imita i veri nobili nella pratica meno problematica: disdegnare i non nobili.
In tal senso è ancora più rilevante il titolo del libro di cui stiamo parlando, che in francese è “Un art moyen”, col doppio senso che ha la parola moyen, tanto di “medio” che di “mezzo”. La fotografia è un mezzo che media, esattamente come l’argomentazione: sono infra-tecniche, ignote a chi non sia a propria volta un gruppo intermedio fra gruppi dominanti e gruppi vittimistici.
1P. Bourdieu, Un’arte media. Saggio sugli usi sociali della fotografia, Meltemi, Milano 2018, p. 51.
2Ivi., p. 53.
3Ivi., p. 60.
4Ivi., p. 93.