1.
“Selfie”
La facoltà di autoritrarsi, nell’ultimo ventennio, si è evoluta. Non alludiamo all’autoritratto degli artisti, che esiste da quando esiste figuratività, bensì all’autoritratto di massa chiamato “selfie”, un vero e proprio cardine dell’attuale estetizzazione del quotidiano.
Se l’Oxford English Dictionary (che nel 2013 l’ha eletta parola dell’anno) lo definisce «a photograph that one has taken of oneself, typically one taken with a smartphone or webcam and shared via social media», il Merriam-Webster ne chiarisce la genesi:
«The first-known appearance of selfie in written form occurred in 2002 on an Australian news website, but the word didn’t see much use until 2012. By November 2013, selfie was appearing frequently enough in print and electronic media that the Oxford English Dictionary chose the word as its Word of the Year. This announcement itself led to a significant increase in the use of the word by news organizations, an increase that was further boosted following the December 10, 2013, memorial service for Nelson Mandela, at which American President Barack Obama was caught taking a selfie with Danish Prime Minister Helle Thorning-Schmidt and British Prime Minister David Cameron. The word selfie, with its suggestions of self-centeredness and self-involvement, was particularly popular with critics who saw this moment as a reflection of the President’s character».
Qui e là, come nell’Urban Dictionary, compare anche uno dei supplementi principali del selfie: lo specchio, in cui spesso ci s’inquadra prima di scattare.
Il fatto che il selfie coincida con un autoscatto, con un autoritratto e con un’autofania ci richiama sul concetto di “stesso” (auto-), cioè di identità.
Il selfie è il principale strumento di autopercezione del nostro desiderio, con cui tentiamo di localizzarci nello spettacolo delle merci, ritraendoci sotto la specie dell’appetibilità. In questo meccanismo gioca un ruolo primario la destinazione del selfie, cioè il social, che è a sua volta l’ecosistema della nostra autorappresentazione (con un gioco di parole, il social è un “egosistema”). Quindi, un autoritratto, spesso allo specchio, apparecchiato per un panopticon egolatrico che rimanda infinitamente la nostra immagine in stereofania.
In tale autoraffigurazione è implicita un’autorappresentazione, che contiene il desiderio di spiare, mostrarsi ed essere visti in un certo modo, in primo luogo da noi stessi. Questa pregnanza presta all’operazione dell’autoscatto un valore gnoseologico: la rappresentazione coincide con l’essere del rappresentato, il volto con l’Io, con ciò dando al volto (in particolare all’occhio, in quanto organo della visione e dunque feritoia del desiderio) il valore morale tradizionale di “specchio dell’anima”.
2
“Monet”
Un esempio tratto dalla pittura chiarisce in proposito una legge e una verità: Jardin à Sainte–Adresse (1867) di Claude Monet, in cui l’azione di ritrarre è da intendere nella sua etimologia, che ne costituisce il doppio senso: il ritrarsi è un ritirarsi (o, se parlassimo di un video, di un “ri-prendersi”: in entrambi i casi si estrae e si astrae un pezzo dal flusso del visibile per immortalarlo, per imbalsamarlo).
In questo dipinto il soggetto del selfie si eclissa per non ritirarsi. Vi osserviamo una terrazza, da cui si ammira una regata, in un piacevole pomeriggio che invita un signore e una coppietta a sostarvi. La scena non ha nulla d’interessante, ma proprio in questo risiede il suo interesse: l’artista non ci ha riportato scene epiche o storiche, niente Napoleone a cavallo o Libertà che guida il popolo, solo il diporto di tre borghesi (visibili, più un imprecisato numero di veleggiatori, più il pittore stesso). Monet offre al pubblico qualcosa a cui non è molto abituato, ossia essere ritratto in un momento qualunque di ozio: l’attività meno epica che si possa pensare.
Cosa manca in questa composizione? Per rispondere proviamo a immaginare la situazione. Monet passa, vede una scena di vita quotidiana, decide di ritrarla. Cosa ritrae? Essenzialmente nulla, nulla di visibile: registra, per l’appunto, una impressione. Se avesse avuto uno smartphone, avrebbe fatto una foto ovviamente. Probabilmente, passeggiando sarebbe arrivato alla terrazza, poi sarebbe rimasto colpito dall’atmosfera di sospensione pomeridiana di quell’angolo di paradiso, infine, tratto di tasca lo smartphone, si sarebbe fatto un selfie. Si sarebbe integrato nella composizione attraverso l’autoritratto per far vedere sul proprio volto l’impressione trasmessa dalla situazione.
Allora, non potrebbe essere proprio lui, Monet, a mancare nella composizione? Oggi probabilmente non vedremmo più il vecchio signore seduto o la coppia, ma solo la sagoma del pittore, la sua espressione (recante l’impressione) e lo sfondo. Invece, Monet, preferisce non esserci, lasciare il campo all’atmosfera: si ritrae in negativo come se avesse ritagliato la sua sagoma da un foglio. Del resto, sarebbe impossibile cogliere l’atmosfera senza un’impressione, quindi, più che un selfie mancato, la Terrazza è il selfie di tale impressione. Monet non ha bisogno di mostrarsi all’interno del quadro, in quanto il quadro è l’estrinsecazione del suo stesso interno, della sua stessa impressione: è come se fossimo nel suo cranio, poggiati sul nervo ottico, fra gli occhi e il cervello. Vediamo coi suoi occhi, e ciò rende il quadro il selfie della sua prima impressione.
3.
“Fisiognomica”
Lo specchio dell’anima, posto innanzi a uno specchio, si rinvia indefinitamente, aumentando il distacco da quella che potremmo chiamare “la prima impressione” del volto, che a questo livello di rappresentazione è irrimediabilmente differito. È tuttavia sul volto che si disegna qualcosa che giace sotto di esso, all’interno.
Schopenhauer, nel suo trattato sulla fisiognomica, ne sembra avvertito e trova un requisito d’importanza di tale pseudoscienza nelle folle che si concentrano in piazze e strade quando c’è la possibilità di vedere un individuo che si è distinto per qualche opera o impresa straordinaria.
Di questo individuo eccezionale si vuole vedere l’aspetto, tanto che, nota il filosofo, i giornali – specie quelli anglosassoni – tendono a dare descrizioni sempre più minuziose di simili personaggi. Proprio come fanno gli incisori e i pittori, sempre più precisi nel dettaglio. Fino alla «invenzione di Daguerre, che appunto viene apprezzata così altamente [poiché] viene a soddisfare quel desiderio nel modo più perfetto»1.
Malgrado questa perfezione, oggi addirittura iper-reale2, ossia trapassata nell’allucinazione simulacrale, rimane il fatto che:
«ogni volto umano è un geroglifico, che, per la verità, si lascia decifrare, e l’alfabeto del quale ognuno porta in sé già pronto. Anzi, il viso di un essere umano, di regola, dice cose più interessanti di quelle che dice la sua bocca […] esso infatti è il monogramma di ogni pensare e agire di tale essere umano. […] Perciò ogni individuo merita di essere osservato con attenzione; anche se non ognuno merita che si parli di lui»3.
Praticamente l’idea pop che ognuno ha diritto al suo quarto d’ora d’attenzione, ma a una condizione: l’assenza della patognomica, ossia della mimica, del soggettivo.
«La prima condizione per imparare è di afferrare l’individuo con sguardo puramente oggettivo; e ciò non è molto facile. Il geroglifico appare confuso e falsificato, appena viene mescolato con la minima traccia di antipatia, o di simpatia o di apprensione o di speranza, oppure se vi si insinua anche il quesito di quale sia l’impressione che noi facciamo su di lui in quel momento; insomma, se nella nostra osservazione si inserisce qualche elemento soggettivo»4.
È molto difficile che ci siano selfie scevri di soggettività e mimica (pensiamo al “duckface”, che assume spesso il valore di mascheramento dell’espessione tramite la deformazione del volto), trattandosi appunto di rappresentazioni e non di un’osservazione dal vivo come quella presupposta da Schopenhauer.
Tuttavia, quando egli passa dal piano puramente fisiognomico a quello fisiognosico – quando introduce la questione metafisica della morale – osserva qualcosa che è ancora presente nel selfie contemporaneo:
«Diversamente però stanno le cose quando si tratta non già dell’indole intellettuale, ma del carattere morale dell’individuo […] mentre ognuno mostra apertamente il proprio intelletto, dato che in linea generale, ognuno ne è soddisfatto e cerca di farlo vedere ad ogni occasione, il lato morale di rado viene messo in luce apertamente, anzi di solito viene celato con premeditazione; il lungo esercizio conferisce all’individuo una grande maestria in questo campo. […] Di conseguenza, in fatto che noi, giudicando dal punto di vista fisiognomico, possiamo facilmente garantire per un individuo che egli non creerà mai un’opera immortale, ma non possiamo garantire altresì, che non commetterà mai un grande crimine»5.
Qui, oggetto della sua velata allusione, è Hegel, a cui poche righe prima attribuisce una faccia da «birraio». Quindi sicuramente non la capacità di un’opera immortale, ma forse di un grande crimine sì.
Malgrado tale animosità, anche Hegel parla della fisiognomica in termini di coincidenza fra l’esterno e l’interno, addirittura collocando questa coincidenza in altre forme di estrinsecazione che non il viso, estendendole a ogni espressione muscolare, tanto della mano quanto delle corde vocali:
«I tratti semplici della mano, come pure il timbro e il volume della voce in quanto determinatezza individuale della lingua parlata – e la stessa lingua quando, ricevendo dalla mano un’esistenza più stabile e salda di quella che ha mediante la voce, diviene scrittura, e più precisamente manoscritto –, sono dunque espressione dell’Interno, la sua esteriorità semplice; a sua volta, poi, questa espressione si rapporta come un Interno rispetto all’esteriorità molteplice dell’azione e del destino individuale»6.
Ci sono già, nel capitolo sulla fisiognomica della Fenomenologia dello spirito, quel che più tardi sarà il cruccio fenomenologico di Husserl (ossia cogliere e descrivere i vissuti intenzionali pre-razionali che fondano la nostra coscienza) e la speculazione di Derrida su Husserl stesso a proposito della voce in La voce e il fenomeno.
Tornando a Schopenhauer e Hegel, la loro affinità sul punto poggia sull’idea che l’oggetto più proprio della fisiognomica consista nell’impressione a prima vista7. È questa impressione ad avere carattere rivelatore.
Quando Hegel ricorda che «ci sono dei ritratti che, come è stato detto spiritosamente, sono somiglianti fino alla nausea»8 allude a tale epifania quand’è neutralizzata dal realismo: il tema non è essere realistici, ma dare la forma di fisionomia adeguata «alla piena espressione di questa profondità d’animo»9.
Sembra così che il volto abbia due diversi statuti: possiede la capacità di impressionare e contestualmente è un geroglifico da interpretare. In essa c’è compresenza di intuizione e intellezione: senza che mai si possa davvero rendere ragione della coscienza che inferiamo dal volto, tale volto nella sua prima impressione ci dice la verità.
Il che combacerebbe con quanto Hegel sostiene altrove: che il geroglifico si esprime per immagini spaziali e che la scrittura alfabetica, la quale si esprime invece per mezzo dei suoni (nuovamente l’importanza della voce nel logos), è «la più intelligente [perché in essa] la parola […] è portata alla coscienza»10. In sostanza, il volto, come il geroglifico, è per statuto distante dall’intellezione razionale e più prossimo all’epifania.
Nell’autofania del selfie, il prodotto è la messinscena sequenziale di questa prima impressione, di questo interno che si mostra ripetutamente se non quotidianamente all’esterno sotto forma di geroglifico, di monogramma.
Se, come fa Schopenhauer, eliminiamo il patognomico, ossia l’espressione facciale, rimane solo questa impressione, ma in che consiste precisamente?
La neurologia ci ha illuminato su una caratteristica del cervello umano: esso riconosce un volto con lo stesso meccanismo con cui riconosce una parola familiare, ossia senza vedere le singole parti (naso, bocca, orecchie, singole lettere o tratti ecc.) ma percependola nel suo complesso11. Tratto che, nell’ambito della scrittura, conferisce ai geroglifici quell’aura mistica che hanno avuto per secoli12, come se il senso (divino) da essi espresso fosse interamente racchiuso nella manoscrittura figurale.
La vicinanza della scrittura non alfabetica, spaziale, alla immagine del volto, permette, con maggiore evidenza che non la scrittura alfabetica, di cogliere la somiglianza fra volto e monogramma e di osservare come quella “prima impressione” sia “impressione della totalità”. Più precisamente, il selfie è l’autofania della totalità del proprio interno ed esterno sotto forma di simulacro.
4.
“Volti come segni”
Il volto, il geroglifico, il manoscritto (la grafia), il timbro della voce, l’autoritratto, il selfie sono tutte forme di interiorità esternata. La totalità è la forma attraverso cui l’interno si esterna. La totalità dell’interno esternato trova la sua superficie impressionabile nel volto, esso diventa contemporaneamente lastra fotografica dell’interno e impressione da fotografare all’esterno. Si riproduce qui il paradosso derridiano per cui l’imitato precede l’imitatore13, l’interno precede il volto che precede il selfie che precede il ritratto dell’impressione, l’interno precede l’esterno anche se poi è dall’esterno che si opina sull’interno.
«L’accesso al volto è immediatamente etico»14 perciò tale doppiezza non è solo doppiezza di mimesi (logica ed estetica), ma anche etica (morale e politica). Una delle notazioni più interessanti di Lévinas sul volto riguarda proprio il rapporto fra il suo dettaglio e la sua totalità. Come Hegel non sopporta il realismo del ritratto, così sembra che l’eccesso di dettagli sia anche un limite per Lévinas: «il modo migliore per incontrare altri è di non notare il colore dei suoi occhi! Quando si osserva il colore degli occhi non si è in relazione sociale con gli altri. La relazione con il volto può senz’altro essere dominata dalla percezione, ma il volto in quanto volto non ci si riduce»15.
Possiamo notare che il volto diventa una questione relativa alla sua totalità e al suo senso, che è in un gioco di dipendenza dalle sue parti e di rifiuto del concetto stesso di parte.
Il tentativo del selfie è prima di tutto estetico, ma subito dopo esiste la sua natura morale: volersi mostrare alla società come totalità integrale. Il soggetto che si ritrae nel selfie aspira a incorporare la totalità senza che essa sia mai divisibile, senza che nessuna delle sue parti prevalga sulle altre.
«Quando lei vede un naso, degli occhi, una fronte, un mento e può descriverli si rivolge ad altri come se questi fosse un oggetto»16 e quando si è un oggetto si può essere giudicati come tale. Non è forse quando si vuole criticare qualcuno che si comincia a “porzionarlo”? Le labbra sono troppo qualcosa, i capelli troppo qualcos’altro, gli occhi altro ancora. Il riflesso condizionato è a riprodurre invece una totalità, che è per noi un oggetto puramente esterno, che vediamo solo nel selfie e nello specchio, appunto perché in sé non esiste volto, esso è solo una prima impressione che si stampa in noi, «il volto non è “visto”: è ciò che non può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero»17. Qui entra in gioco il selfie che crea la nostra immagine totale e integrale, altrimenti inafferrabile come fa lo specchio, e la esternalizza come se si trattasse di un oggetto a sé. Per essere precisi, un oggetto del nostro desiderio, in quanto è proprio la totalità del volto a mancare, a “farsi desiderare”.
5.
Vediamo la difficoltà del volto a integrare le sue parti (e a ritrarre la sua impressione) in una osservazione di Benjamin. Nel frammento del 18 dicembre del 1927 degli scritti sull’hashish, annota cripticamente: «Verschrobene auberung über athermaske die (selbstverständlich) auch mund, nase etc. habe»18. Immaginiamo questa maschera che copre e manifesta bocca e naso, e quel “etc.” che è il resto (occhi, fronte, mento…): lo sguardo, l’espressione.
La maschera senza occhi, coi nostri occhi, ha lo sguardo e l’espressione, peraltro “eccentrica”. Tutto ciò in modo autoevidente, naturale, ovvio. Fra i segni, lo sguardo dell’altro, della maschera, o dello specchio, delimitano un orizzonte che, a differenza di quello generale, si muove, si ridelimita e cambia.
Il volto può essere assorbito anche dalla maschera dell’etere, che senza riprodurre in nulla le fattezze del volto umano, può tuttavia diventarlo.
Ma se oltre a delimitare quell’orizzonte mobile, un volto potesse diventare a sua volta un orizzonte? Possiamo pensare che il selfie sia il frutto inconscio di una volatilità dell’identità (l’auto-) tale per cui il volto può diventare esso stesso contesto? La risposta, almeno a giudicare dall’opera di Monet, sembra affermativa.
Spetta però a La Reproduction interdite il compito di chiarire la proprietà principale svolta del supplemento-specchio nell’autoritratto.
In La Reproduction interdite (1937) di René Magritte, il soggetto si lascia ritrarre e così si ritira: il soggetto che viene ritratto nel riflesso dello specchio non ha faccia e la sua nuca gira attorno alla testa per 360°. Il volto è interdetto dalla riproduzione, l’impressione della totalità è persa e l’uomo senza faccia pare una mostruosa entità spettrale o una “natura morta con selfie”, una cosa umanoide. In questo selfie allo specchio, in cui il pittore è comunque eliso, il soggetto non può emergere, dando così l’immagine più corretta di quelle “tecniche di solitudine”19 che costituiscono la costellazione tecnica dei social.
La proprietà è quella di integrare l’immagine della nostra totalità in una composizione, mentre non riesce a incorporare tale totalità nel contesto come invece fa Monet. L’autoritratto allo specchio è un “autoritiro” del soggetto dal contesto, è un “guardare il colore degli occhi”.
Questo fenomeno si dà per la facoltà dello specchio di alterare gli schemi temporali a cui siamo abituati dalla nostra percezione. Lo specchio produce il “vedersi davanti”, ci mette davanti a noi stessi.
Nel selfie allo specchio ci presentiamo come revenant, come passato rimosso che riemerge nel presente dal futuro.
In tal senso può esserci autoritratto, ma non autoritratto allo specchio, dato che non sarebbe in nessun modo “auto-”, ma “etero-”: proveniente da qualcosa che noi non siamo ancora e che non fa ancora parte della nostra identità.
Tutto ciò si fa più chiaro con l’estrinsecazione tecnica che si presenta a noi oggi, che ci espropria sia dell’autorialità dell’autoritratto che delle idiosincrasie che compongono la nostra stessa impressione. Non siamo mai titolari del selfie, al massimo dei prestanome.
Infatti, la tecnologia ci svela che la proprietà privata non riguarda tanto i “beni”, quanto i “mali”, nel senso che il nostro privato non consiste tanto in beni tangibili o nel bene in essi rappresentato20, bensì nell’accollarsi solo il proprio male e non quello dell’altro, e soprattutto nel voler essere proprietari della propria identità, equivale a dire delle proprie idiosincrasie21.
Nel momento in cui ci poniamo come soggetti del riflesso, e destiniamo il riflesso come soggetto della foto, si verifica quanto dato nell’apocrifo del Qoelet creato da Baudrillard: «Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il simulacro è vero».
La verità, il flusso da cui ri-traiamo e ri-prendiamo il nostro simulacro, non “c’è”. Ciò che “resta” di questo niente, l’avanzo di questo processo di disgregazione del flusso, è il simulacro o “autobiofania”. La ripresa del simulacro ha la stessa valenza della caccia, in cui la preda da catturare è il simulacro, che si nasconde nel sottobosco del flusso temporale: lo scatto rispetto al flusso equivale alla preda rispetto alla specie cui appartiene.
Da questo punto di vista, il fotografo si apposta e poi scatta, scocca la foto e cattura l’attimo. Non resta che una domanda da fargli: quale espressione/impressione cerca di catturare l’autore del selfie? Quali sono le pre-condizioni per interpretare e selezionare una delle interpretazioni che sorgono dal geroglifico del volto? Come riesce ad aggirare l’idea che «quella cosa nello specchio è l’irrealtà»22?
Una risposta può essere che ci si immedesima con l’irrealtà (localizzabile nello specchio) e ciò apre scenari ancora più impressionanti sulle nostre strategie di soggettivazione.
1A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, II, Adelphi, Milano 2003, p. 858.
2Baudrillard trovava in Disneyland l’esempio perfetto di iperrealtà, in cui un mondo finzionale diviene addirittura una città disseminata in diverse parti del globo.
3A. Schopenhauer, op. cit., II, pp. 858-859. (Corsivo nostro).
4Ivi, p. 859-860.
5Ivi, p. 868.
6G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2001, p. 437.
7«La fisiognomica naturale è l’opinione immediata sulla presenza opinata dello spirito, è il giudizio sulla natura interna formulato rapidamente al primo colpo d’occhio sul carattere della sua figura» (Fenomenologia, p. 441). «Per conseguenza, si riesce a rigore ad avere un’impressione puramente oggettiva di un viso e con ciò la possibilità di decifrarlo, soltanto la prima volta che lo si vede. […] Perciò bisogna badare attentamente alla prima impressione: bisogna tenerne il ricordo, anzi, quando si tratta di persone di una certa importanza per noi, bisogna conservarlo per iscritto; se, beninteso, si può avere fiducia nel proprio senso fisiognomico» (Parerga e paralipomena, II, p. 860).
8G.W.F. Hegel, Estetica, I, Einaudi, Torino 1976, p. 53.
9Ivi, p. 178.
10G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 459.
11L.S. Glezer, J. Kim, J. Rule, X. Jiang, M. Riesenhuber, “Adding words to the brain’s visual dictionary: novel word learning selectively sharpens orthographic representations in the VWFA”, in Journal of Neuroscience, 2015. <http://www.jneurosci.org/content/35/12/4965?utm_source=TrendMD&utm_medium=cpc&utm_campaign=JNeurosci_TrendMD_1>
12Cfr. R. Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi, Milano 2018.
13J. Derrida, La disseminazione, Jaca Book, Milano 2018, p. 210.
14E. Lévinas, Etica e infinito, Castelvecchi, Roma 2012, p. 87.
15Ibid.
16Ibid.
17E. Lévinas, op. cit., p. 88.
18«L’eccentrica espressione sulla maschera dell’etere, che (autoevidentemente) ha anche bocca, naso ecc.».
19Cfr. T. Macho, in Aut Aut, 355/2012.
20Cfr. E. Coccia, Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, Il Mulino, Bologna 2013.
21L’idiosincrasia esprime in modo ineccepibile questo impasto che è il temperamento individuale, che è appunto quella mescolanza (“-crasia”) insieme (“-sin-”) del proprio (“idio-”), il groviglio esistenziale soggettivo.
22P. Sloterdijk, L’imperativo estetico, Raffaello Cortina, Milano 2017, p. 61.