Come notava l’editoriale del direttore del numero di marzo, è stata assordante l’assenza di confronti fra leader politici durante la campagna elettorale. Ed è un fatto che fa ripensare a un passo di Simone Weil che, in nuce, ci descrive:
«Al mattino si legge sui giornali che ci sono stati qui e là degli attentati, pressappoco con lo stesso stato d’animo con cui si legge che ci sono stati degli incidenti stradali… I giornali nemici non si fronteggiano nei metrò o sui tram; non si discute di politica. Per le strade non ci sono più tafferugli. Niente denota una situazione particolare, se non questa calma stessa, che è, in certo senso, tragica».
Nella stessa lettera, Weil racconta che «giovani che non hanno mai lavorato, stanchi dei rimproveri dei genitori, si uccidono o si danno al vagabondaggio, o si demoralizzano completamente». Di suicidi giovanili ne parliamo spesso, anche in questa rubrica, ed è inutile insistere.
La lettera, ai genitori, è dell’agosto del 1932. Il legame fra quella “pace terrificante” e la gioventù tedesca è l’analisi più ampia della crisi dei partiti della sinistra (socialdemocratico e comunista) e dei sindacati, a cinque mesi dalla nomina di Hitler a cancelliere. Da un lato c’è l’occhio del ciclone in cui gli hitleriani attendono l’ora imminente, dall’altro l’erosione silenziosa del patrimonio umano del paese. In mezzo, si consuma il dramma dell’immobilità politica dei partiti di sinistra.
Weil lo mostra quando recensisce un opuscolo di Troskij.
«Davanti a questa tragica situazione, quelli che sono soliti parlare a nome degli operai tedeschi chiudono gli occhi. Basta prendere in esame i due grandi partiti, il socialdemocratico e il comunista; nella miriade di organizzazioni dissidenti che li attorniano, nessuna finora sembra avere assunto un’importanza politica […]. I due grandi partiti, con pretesti diversi, permangono in un’inazione parimenti criminale. Tutti e due sono guidati da burocrati, che preferiscono attendere non si sa quale altra occasione per agire, invece di cogliere l’occasione attuale, che non si presenterà mai più […]. Il partito comunista [è] completamente governato dalla burocrazia [e] soffre, esattamente come il partito socialdemocratico, della vertigine che colpisce ogni burocrate posto davanti alla necessità di agire. Anch’esso preferisce chiudere gli occhi e attendere. Per molto tempo, i burocrati posti alla testa del partito comunista tedesco hanno apertamente sostenuto che si poteva benissimo consentire a Hitler di giungere al potere; che egli vi si sarebbe logorato molto in fretta, e avrebbe aperto la via alla rivoluzione».
Una nota di stile adatta anche per oggi, in cui tutti aspettano che i casaleggesi governino per sgretolarsi (cimento di cui sono avvertiti, tanto che Paola Taverna temeva il celebre complotto per farli vincere a Roma), mentre invece stravincono. Non è un modo per paragonare i casaleggesi agli hitleriani, ma per evidenziare che è una sindrome vecchia, quella della sponda e del nemico, per i partiti che parlano a nome degli operai, come se di pazienza non si morisse.
Anche «il partito [comunista] ha conservato lo stesso atteggiamento. Esso attende. […] Ma, nell’attesa, dal momento che non fa niente, non sa neppure conquistarsi qualche migliaio di operai socialdemocratici. Nella sua superbia, si accontenta di definire fascista tutto quanto non è comunista. […] In un momento in cui la sua unica possibilità di salvezza risiede nel conflitto tra i suoi diversi nemici, fa il possibile per saldarli in un unico blocco».
È il meccanismo attraverso il quale, urlando al fascista o al populista, è chi urla che suscita il fascismo e il populismo.
E questo definisce un sintomo, che non è più solo politico, ma cognitivo: come si fa ad agire contro se stessi senza rendersene conto e, anzi, pensando di star facendo bene? Weil non ha dubbi: la colpa è della burocrazia. Non nell’accezione elementare e giornalistica di procedimento, tendenzialmente farraginoso, con cui il cittadino deve fare i conti per interagire con lo Stato; e nemmeno in quella, limitativa ma indispensabile, di assembramento di quadri amministrativi, non elettivi, che regolano stabilmente la gestione del partito; ma forse più intendendo una pratica capace di rendere ottusi, di sprigionare “l’immobilità burocratica”.
«Così i burocrati della socialdemocrazia e i burocrati del partito comunista, senza esserne consapevoli, si aiutano a vicenda a mantenere da entrambe le parti l’immobilità burocratica. Non c’è molto da stupirsi se, tra gli operai tedeschi, quelli che meglio si sono adattati al regime seguono ciecamente dei semplici burocrati; stupisce di più che la stessa cosa accada fra i più rivoluzionari».
Purtroppo, però, «quello che una burocrazia è incapace di fare è una rivoluzione. Le due caratteristiche di una burocrazia di Stato sono la paura davanti all’azione decisiva, e ciò che Trockij chiama “utilitarimo burocratico”. “L’apparato staliniano si limita a comandare. Il linguaggio del comando è il linguaggio dell’ultimatum. Ogni operaio deve riconoscere in partenza che tutte le decisioni passate, presenti e future del Comitato Centrale sono infallibili”».
Quindi, della stupidità, la burocrazia non solo ha l’immobilità conformistica (di cui è inconsapevole, e pure vittima): ha anche la radicata convinzione (come nei miti aziendali e nelle mission messianiche della precedente aporia) dell’infallibilità dell’azione. L’ipotesi di uscirne è aleatoria quanto quella di uscire dalla metaignoranza.
«Che fare perché la rivoluzione tedesca trionfi? Trockij risolve la questione mettendosi nell’ottica di un partito comunista degno di questo nome; e, a questo partito immaginario, dà un programma semplice e grandioso. […] Ma come applicare un programma simile? Per Trockij il modo è uno solo: il “raddrizzamento” del partito comunista tedesco, da realizzare con una pressione dell’“opposizione di sinistra”. […] Ma Trockij, il quale conserva per il partito comunista un attaccamento che non si può fare a meno di giudicare superstizioso, non vuole ammettere che una rivoluzione possa trionfare se non sotto la sua direzione».
Cosa fare quando hai Hitler in casa? Affidare un vasto programma a un partito che esisterebbe raddrizzandone uno che già c’è e che non funziona, e diventarne il capo? Una risposta che Weil trova deprimente perché la realtà è tetragona.
Intanto, il partito socialdemocratico nicchia o cerca facili consensi, «ma cosa vale un partito che sa solo seguire con qualche ritardo le masse? Per quanti sforzi si facciano per “raddrizzarla”, non si può rendere una burocrazia capace di dirigere una guerra civile. [Se ciò avverrà], avverrà contro le burocrazie di partito, spezzando le burocrazie di partito».
Gli autoinganni sono su due livelli: quello delle masse (che a poco a poco scelgono Hitler) e quello dei burocrati dei partiti di sinistra (che restano fermi come un gatto abbagliato dai fanali).
Questi ultimi, dominati da formule che ripetono senza comprendere, non sanno di essersi già rassegnati e, dai loro tentativi, emerge che non sono in grado di lottare.
Weil lo sottolinea adeguatamente: Hitler ha dato lavoro nei freiwilliger Arbeitsdienst per 10 pfennig settimanali ai disoccupati (che dovranno adattarsi a fare i manovali per una paga misera indipendentemente da quello che sanno fare), ma lo ha dato. Parla una lingua che, dai disoccupati con cinque e passa anni di crisi alle spalle, viene subito capita e che sta loro bene. Si potrebbe dire che, per mettere in crisi una burocrazia di sinistra e soffiarle i consensi, non serve altro che rubarle la lingua. E qui, l’analogia tra il mediocre culturale, lo stupido aziendale e il burocrate politico, si vede a occhio nudo.