“L’altra faccia della verità”
Formiche 6/2017
Chi si fosse trovato a Torino per ascoltare la Conferenza dei Capigruppo sull’obbligatorietà dei vaccini, avrebbe potuto scovare in uno degli scaffali della libreria Luxemburg, una delle rare copie d’un libro grande e dimenticato: Il nuovo corso di Mario Pomilio.
La scena d’apertura vede un paese (dove vige un partito totalitario orwelliano) in cui, un giorno, attraverso l’unico giornale, “La Verità” (ovviamente del partito), la popolazione è informata che il partito si è sciolto e che ora vige la libertà. Il giornalaio Basilio è felicissimo: i pensieri gli si affollano liberamente, anche se tutta quella libertà è insostenibile e sente quasi la mancanza di una vita definita dall’alto. Il lattaio, invece, dice a Basilio che potrebbe essere un “imbroglio come gli altri” e che non è convinto che davvero ci sia la libertà. Basilio vuol fargli notare che proprio dubitare della libertà, come sta facendo lui, è indice di libero pensare e che fino al giorno prima non avrebbe detto quella parola: “imbroglio”. Ma d’un tratto capisce che il lattaio potrebbe aver ragione e che c’è solo un modo per sapere se è davvero cominciato un nuovo corso: andare alla riunione del Partito. Tuttavia, riflette Basilio, se uno ti concede la libertà, è davvero libertà? Si può concedere la libertà?
In altri termini, se il sottinteso è maliziosamente che la verità rende liberi, un atto positivo (dire “ecco la verità!”) può eliminare il sospetto? È dubitare della verità che rende liberi.
Sembra banale dire che se si è soddisfatti si è accondiscendenti, se la politica si basa sulla mediazione di interessi si espone alla corruzione, se la democrazia cerca la soddisfazione dell’individuo ammette l’astensionismo, ma non lo è. Banale è dire che al culturista, oltre ai muscoli, crescono i calli. Meno banale è dire che, se internet amplia le possibilità di conoscenza, amplia anche il sospetto, perché la conoscenza si basa sul sospetto: la ricerca (della verità) è dubbio. È inevitabile che, se chiediamo al tecno-capitalismo di sfidare “l’impossibile” (creare cure per AIDS, cancro, diabete; ritrovati dimagranti e contro l’impotenza; mezzi per scambiare col mondo ogni informazione, farsi la propria idea, discettare su tutto liberamente ecc.), quando ci riesce, nuove potenzialità si sviluppino.
Sapendo di più, sospettiamo di più: pretendere di estinguere o addomesticare il potenziale che ci sembra eccessivo rispetto a quel che avevamo programmato, apre un campo scivoloso e ambiguo che finisce sempre con forme repressive inefficaci.
Oggi – forse come ieri, quando (scherzava Eco) si trovava la verità nei Protocolli dei Savi di Sion – si tende a un vero più vero dell’ufficialità perché, com’è empiricamente evidente in ogni gomblotto, ciò che si cerca è una teoria di spiegazione totale dei fenomeni che disorientano e angosciano: il tratto “unario” delle esegesi sulle origini della realtà in cui sostare liberamente.
Se questo è il fascino dei complotti (quando le prove del complotto esistono, il complotto è confermato; quando non si arriva a sentenza, il complotto è confermato lo stesso perché è un complotto), dovremmo chiederci non tanto se il segreto di Stato ingeneri sospetto, quanto perché si sia finiti a credere a qualunque complotto – come quello di cui s’è reso garante Di Maio sulle Ong “taxi del mare” o il NYT sospettando il M5s d’essere programmaticamente anti-vaccinista.
I complotti esistono (negli anni ‘70 abbiamo visto fallire un golpe e un golpe è un complotto), ma è diverso sostenere che esiste il complotto, quello che rimanda all’orchestrazione suprema sempre e comunque (il ruolo svolto nell’immaginario collettivo da Andreotti).
Ancor più che su questa sospettosa credulità o ansia di sollievo in una verità ulteriore, dovremmo interrogarci sul fatto comunicativamente rilevante che il complotto – nel momento in cui i media “tradizionali”, che dovrebbero essere un cardine del complotto, ne parlano come di un fatto che sposta elezioni e risposte dai mercati (dunque, il sistema stesso dei media) – divenga notizia in quanto tale.
I media lo introiettano nell’uso comune come oggetto dotato di valore, su cui c’è da scambiarsi spiegazioni: ma se i gomblotti (su vaccini, ONG ecc.) non esistono, cosa c’è da dirne?
In ciò si svela, più che altro, una “piccola perversione” del sistema mediatico, di recente descritta nelle pagine di Tabloid inferno da Selene Pascarella, che è il criterio di spettacolarità a cui sono sottoposte le notizie: è di per sé il fatto che il complotto diventi notizia (magari a sorpresa) a ingenerare l’impressione che ci sia un complotto – sospettabilmente – “di sistema”.
Si denota, nuovamente, la circolarità del complotto: sospettare un complotto d’essere di sistema è fallace, in quanto un complotto dal basso non potrebbe che chiamarsi insurrezione.
C’è da dedurre che, l’unico ad affermare una verità incontrovertibile, sia proprio lo Stato, che limpidamente ammette: sì, ho un Segreto (e, su ciò che non lo è, ho da rispondere)1.
1Per un’estensione di questo punto, rimando al mio articolo Pornografia del segreto di Stato (“Azimuth” III/2015, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma).