La lettera che Michele, grafico precario e trentenne suicida in febbraio, poi pubblicata sul Messaggero Veneto, è un’emblematica traduzione in parole della sensazione che si vive quando viene meno quell’effetto – detto “di verità” – che proiettiamo sul mondo come premessa per affrontare l’ipotesi del futuro. Non è di nessuna consolazione sapere che la propria esistenza è rimasta schiacciata da una congiuntura storica, specie perché si è perfettamente soli nella propria impossibilità di fuga: sapere di non essere soli non fa sentire meno soli.
Unicamente l’agire politico può convincere che la fuga sul futuro esiste, specie quando ci sono da superare difficoltà, ma «non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso» tanto che «se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno». Sembra un già detto aleggiante, che potrebbe concludersi con un casuale “altrove sarebbe stata una strage”.
È comunque una lettera in più del caso della ventiseienne – prossima laureata in medicina di un sistema che, per inciso, a breve potrebbe collassare per carenza di medici – tagliatasi le vene col coperchio d’una scatoletta di tonno in un supermercato della provincia piemontese.
Forse, prima ancora di chiedersi se le cose abbiano senso, ci si dovrebbe chiedere se il nuovo veicolo di comunicazione “per immagini” sia capace di senso, o altrimenti detto: cosa impedisce ai giovani di organizzare il proprio disagio?
Si tende a incolpare internet, che assume sempre più il ruolo di una divinità disgregatrice o di un sapere oscuro e terribile, di una conoscenza insondabile che può ritorcersi contro di noi o di una macchina che rischia di mangiarci: internet infido, internet grandioso, internet senza fondo, da regolamentare, affinché non ci sommerga con le memorie che sputa fuori quando meno ce lo aspettiamo. Ma in questo caso la rete, tranne che impedirci il discorso diretto, non fa e la ragione di questa concreta percezione dell’inutilità di progettarsi nel futuro è forse più remota.
La Varkey Foundation ha pubblicato i risultati di un’indagine sui giovani di vari paesi da cui emerge che gli italiani – dopo francesi (che hanno a che fare con attentati e lepenisti) e turchi (alle prese col fondamentalismo e le migrazioni) – sono i ragazzi che meno credono in un futuro migliore. C’è anche da notare che i più ottimisti sono cinesi, indiani e nigeriani, ma è naturale che chi è al fondo veda comunque qualcosa di positivo nel futuro, se non altro che allontani il presente.
Certo, la crisi fa il suo, ma anche l’assoluta sfiducia nel ruolo degli altri è causa, alla base, della inappropriatezza dei giovani a cooperare fra loro.
Dietro alla difficoltà di agire con gli altri – ben prima degli effetti di ritorno di un mezzo – c’è il problema di trasformare una rappresentazione inanimata (essere particelle di un aggregato) in un programma di vita (“politico” nel senso di rapporto al futuro e con l’altro in un progetto).
Mentre il punto di vista critico prevalente sulla rete la descrive come un catalizzatore di individualismo, narcisismo e indifferenza (frutto di tesi neo-premoderne o chiaramente antimoderniste, le stesse che negli anni ‘90 paventavano effetti epilettici sui bambini che usavano i videogame o ancora prima sosteneva che guardare la tv troppo da vicino rendesse strabici, e che oggi parlano dei “pericoli della rete” o dei vaccini), affermiamo che non è internet la causa di questo vuoto di senso.
Nella lettera di Michele è totalmente svanita la fiducia nella disponibilità sociale e nella capacità di coesistere ed essere coesi (è un problema di relazione, in senso ampio). In compenso si fugge, si è invasi, torniamo, veniamo abbandonati, l’Europa è lontana, bisogna andarsene dall’Europa, siamo migranti e occupati allo stesso tempo. Anche questo rende difficile ragionare del proprio futuro: ci si contagia con la miseria dei fuggiaschi e con l’incertezza, che carica la molla della propria precarietà, si finisce col cercare una qualunque sicurezza per stare comunque meglio – senza trovarla. La paura e la sfiducia sono claustrofobiche alleate, qui.
Sarebbe il caso di coniare un altro appellativo: “gli appiedati”, perché i giovani si tengono in equilibrio fra ambizione e umiliazione, non riuscendo a trovare il centro fra gli opposti: è, infatti, una medietà astratta nella quale si deve però credere fortemente.
Se dunque questa “generazione perduta”, che manda segnali così netti e inquietanti, non avesse motivazione a “stare al mondo”, non per le nuove tecnologie o per i cambiamenti della modernità, ma proprio perché manca la fiducia nello “stare”, che significa stare con gli altri?
Ogni stare, ricordiamo, è stare “regolato”, altrimenti non è politico. Vale a dire: la giustizia è il modo in cui ci riconosciamo come facenti parte di un gruppo, il modo in cui bene e male, fare e non fare, sono detti e vissuti. Allora, la fiducia non potrebbe mancare in quanto manca il riconoscersi nelle regole dello stare con gli altri? Detto meglio: la giustizia può difettare di senso rispetto ad aspettative, entrare in attrito con un sentire, divenire di colpo obsoleta annullando le relazioni?
Nota al politico: per capire meglio il modo in cui qui c’entra la giustizia, ripartire dal concetto meno ostico di pena (vedi il quindicenne suicida a Lavagna).
Vogliamo parlare di umiliazione del reo? È molto in voga, ad esempio, l’idea che lo Stato debba trattare con gli evasori fiscali (cosa che a suo tempo ha comportato la nomina a procuratore di Milano di Francesco Greco) e, una conseguenza di ciò, è stata la depenalizzazione di certi reati e il passaggio dal penale all’amministrativo di una serie di capi di imputazione, nell’ottica di una giustizia direttamente e indirettamente meno repressiva e di uno Stato non nemico del cittadino. Malgrado ciò, sul fronte dei piccoli reati – quelli che commettono gli sciamannati –, dimostriamo una diffusa simpatia per metodi umilianti, già presenti negli Stati Uniti, come la scelta fra lavori socialmente utili e la galera. A volte si contempla anche il pagamento di una sanzione, ma naturalmente non sempre, se è contemplata, il reo ha modo di corrisponderla.
Così, da colpevole, il reo trova nei lavori socialmente utili il suo girone dantesco: sono diventate famose le fotografie delle celebrità hollywoodiane in tuta arancione che raccolgono immondizia o quelle di Berlusconi quando assisteva i coetanei di uno ospizio. In un registro meno simbolico, è molto chiara al riguardo la lettera pubblicata dall’Associazione Antigone di un altro suicida, ventiduenne stavolta carcerato, che scrive: «io qui sto impazzendo, non ce la faccio più, ma vabbé me la sono cercata».
Questo schematicamente sottace una mentalità, palesata recentemente da Salvini nel condividere la foto di due rom sotto sequestro della vigilanza d’un centro commerciale, che ha come scopo infliggere punizioni, unilateralmente, secondo un giudizio sommario: il problema è che non è un fenomeno circoscrivibile a una cultura politica, ma alla cultura politica in siamo immersi (che sia causa o effetto della cultura civica non interessa). La politica si offre come strumento di punizione di chi non ci piace, così da spostare la situazione a nostro vantaggio, ammesso che siano in gioco vantaggi che ci riguardino: ma questo è un fatto di rilevanza elettorale.
Il ventiduenne dice di “essersela cercata” perché ha interiorizzato un sistema in cui è sempre colpa dell’individuo, mai del sistema stesso: per cui ammette, pur avendo cercato di fuggire più volte dalle strutture in cui era ristretto, d’essersi “cercato” il suicidio, paradossalmente.
In tal senso, a parte il riferimento (parzialmente ingiusto) a Poletti, anche la morte di Michele è causata dal modo che la politica ha di autorappresentarsi, di parlare, oltre che dalla irrilevanza del suicida in questo mondo.
Spetta infatti all’attività politica l’offerta di prospettive per “un futuro diverso” – il suo inquietante jingle – altrimenti viene meno il patto delle società moderne: che la storia è progresso non ciclo, cultura non natura, conoscere non sapere. Che il futuro sarà migliore, oltre che diverso.
Spetta al politico nascondere l’evidenza razionale che «questo non è il futuro, questo è il pidocchiosissimo presente» (I Simpson, stagione 20 episodio 12) sotto una narrazione di prospettive progressive ordinate da un’idea comprensibile ispirata a certi principi elementari. Viceversa, senza questa rete organica di concetti-cardine, oltre alla violenza, quello che oggi la politica riesce a esprimere è il correlato causale della violenza: il proprio smarrimento (che non si vede) attraverso uno stile demenziale (che invece si vede in alta definizione).
I suicidi appartenevano, o così ritenevano, a un mondo sorpassato da una sua mutazione. Indiscutibilmente, la lettera di Michele ha ragione, ha l’effetto di verità e ciò basta a farne la verità, ma come tale è sorpassata, da rammentare, perché immagina il futuro come fanno i film di fantascienza degli anni ‘50, che preconizzavano auto volanti ma non internet: di certo il futuro sarà duro come lo immagina Michele, ma non è detto che perciò sarà più infelice o peggiore dell’ora o che non si possa addolcire. L’unico rischio (ed è questo, si dovrebbe pensare, che ha intuito, forse senza saperlo, comunque senza dirlo) è che, invece, il futuro sia uguale al presente; ed è forse questo che ha visto o pensato di aver visto: un mondo, quello in cui anche lui abitava, che non evolveva, condannato all’estinzione da un contesto che risponde a quella mentalità punitiva e sommaria, ossia sostituito da un altro mondo identico al precedente. Ecco, si sarà detto, che si appronta il “futuro diverso” e non ho scampo.
E questo, incredibile a dirsi, è sentito come ingiusto, come furto e truffa, secondo la lettera: qualcuno lo elabora e supera (molti al momento, anche partendo), qualcuno lo elabora senza superarlo (Michele) e qualcuno ne è superato (il ventiduenne, che fuggito tre volte dalla Rems di Ceccano, si è ben pensato di chiudere a Regina Coeli). A ogni modo, però, la percezione resta e solo la prospettiva politica può offrire un’altra percezione: quella del progetto o programma di vita, che – diciamo così – deve mirare a qualcosa di “vitale”, non di virale.
Siamo nel momento, lungo per gli standard di vita umani, in cui una forma simbolica della verità ha conchiuso la forma in cui abitavamo fino a ieri: nella sua ingenuità, “post-verità” significa solo questo passaggio da un aspetto noto della verità a uno che ancora ignoriamo.
Possiamo rammentare, conoscere, il mondo che si è chiuso, ma solo esplorare quello in cui siamo (sempre un concetto platonico – quello di “chora” – esplicita che siamo sempre in un “dentro”, concettualmente, che siccome ci accoglie ci sembra vuoto ma in realtà ci è solo oscuro e come tale problematico nel suo essere conosciuto).
Spetta all’agire sociale regolato politicamente ricominciare a esplorare le possibilità di senso della verità in corso, proprio per evitare casi in cui il mondo sembri un luogo dove stare è vano; potrà farlo anche attraverso i soliti topoi (occupazione, integrazione, emancipazione ecc.), ma solo a partire dalla constatazione che c’è da abbandonare la mentalità della giustizia sommaria, che non è giustizia e, soprattutto, è indice di incomprensione sociale.
Solo un convincimento, cioè un’idea, può distogliere dal suicidio, in questi casi: quella per cui conosciamo già il peggio e che ci attrezzeremo, perché non è detto (ed è forse la percezione della condizione a far sì) che il peggio sarà davvero così tanto peggio. Di conseguenza, la domanda da cui il politico dovrebbe ripartire è: cosa c’è in fondo al peggio? Senza rispondere a questa domanda, come minimo, hanno ragione gli italiani sotto i 35 anni suicidi (500 nel 2016), perché senza questa risposta, quando la politica parla, lo fa di niente.
Poche settimane fa, i media ci hanno informato su una quarta elementare di Torino che ha scritto una lettera alla direttrice d’istituto «affinché possiamo esercitarci ad utilizzare “il linguaggio cortese e rispettoso”, caratteristico di questo tipo di lettera» (sic); la notizia ha suscitato ovvi commenti benevoli, perché ha rappresentato il recupero di quelle buone vecchie norme del colloquio con l’altro, senza far riflettere che in effetti è il modo peggiore per rapportarsi all’altro, quello del linguaggio cortese e rispettoso, poiché è il linguaggio della distanza e dell’asimmetria: come si può creare fiducia con un simile linguaggio?
Esso, tuttavia, è caratteristico di quell’imbarazzo sostanziale di interagire col prossimo se non “in un certo modo” (di cooperare con lui “a condizione che” siano saldi una serie di prerequisiti formali e non di forma) che fin dalle elementari viene inculcato, con risultati molto alterni.
Non è la stessa dinamica che viene riproposta quando si tratta di incoraggiare le parti in causa, le correnti di un partito in scissione, maggioranza e opposizione, a trovare un accordo? Bisogna moderare i termini e confrontarsi civilmente, arrivare a un accordo anche se contrario ai presupposti secondo cui pensiamo il futuro. Come risposta alla frustrazione sociale derivante da questi “accordi civili”, arriva il populismo, che invece scherza e “ti dà del tu” promettendo di dare finalmente quello che il popolo chiede.
Quando la domanda “cosa c’è in fondo al peggio?”, che deve coincidere con “qual è il futuro?”, non sfiora il politico o il pensatore politico, parlare di crisi della comunicazione politica può giusto occupare il posto di corollario, perché vuol dire che l’educazione politica è in cattivo stato. Se il futuro è quel luogo immaginario che per definizione il genitore passa alla prole, questo non potrebbe evidentemente essere il futuro. Al centro di questo sta il paradosso di percepire il mondo come ingiusto, inadeguato alle aspettative, in disfacimento, la decomposizione del presente che somiglia al passato.
Quello che, nei discorsi sulla rappresentazione e sulla performanza, viene sovente accantonato è che, l’attualizzazione di questa, passa solo attraverso un effetto di senso.
Rappresentazione, senso e performanza sono i tre passaggi fondamentali che fondano la politica fondando la società che la produce. In tale chiave si capiscono meglio le osservazioni di quegli studiosi che profetano l’imminente tramonto della comunicazione verbale a favore di quella per mezzo di tutorial o forme di soft-bias, praticamente ermetica alla critica discorsiva. Così, però, faremmo della sciatta biopolitica.
Concentriamoci piuttosto sulla possibilità che, senza l’effetto che permette al soggetto di cogliere il senso del suo agire, è sempre più difficile convivere nella società “delle connessioni”. Questo connotato non è secondario, dato che per il momento, la rete si sta dimostrando un contesto assai povero e un mezzo strutturalmente inadeguato per consentire alla società che ha suscitato di gestire la creazione di un senso collettivo (non in attrito con la legge). Da questo punto di vista, la smaterializzazione della politica e l’annientamento dell’agorà ha fatto sì che venisse a mancare il canale privilegiato del senso: ossia il rapporto personale col politico, fisico, comiziale, “sul territorio” per usare un tic mondano. Comunque, quello che sinora è stato efficace veicolo del senso e covo di discorso comune, prima ancora come modo che come modalità.
Forse anche per questo, contestualmente alla crisi dei partiti, cioè alla rappresentazione della società che evolve dialetticamente, si manifesta una strisciante contestazione giovanile, soffocata però dall’indigenza e dall’indifferenza: il modo della politica di discorso è basato sulla fiducia, le modalità della politica “di rete” sullo schieramento. Pare la banale dicotomia fra amore e odio.
Per questo, purtroppo, il discorso sul senso annoia tutti. Per i più benevoli e sofisticati il senso è qualcosa di cui parlano i mistici, per i più netti il senso è il nome che diamo alle cose quando assecondano i nostri pregiudizi consapevoli o no. Al massimo si parla di buon senso o senso comune, di senso perfino come storytelling, anziché – come sarebbe obiettivo – di senso come punto di vista retrospettivo per costruire prospettive.
Le prospettive sono ovviamente raffigurazioni che produciamo mimeticamente grazie al materiale a nostra disposizione, sia esso presente nella nostra memoria o da comprendere con le conoscenze in essa presenti. Come poi sorga un “senso” può essere argomento di discussione, ma senza negarne l’effettivo bisogno per l’accesso dell’individuo a un “dove” futuro in cui proiettarsi. Senza questa meta, la programmabilità stessa dell’agire sociale risulterebbe ai più vuota e senza oggetto.
Dire “ai più” consente di focalizzare l’attenzione del cogitatore politico su quel margine di indomabile materialità costituita dalla massa degli individui (senza che occorra porre mano al Canetti nella fondina), che si tende a trascurare se non si è impegnati a studiarne il comunicarsi.
A questa massa serve che ci sia senso per poter sorreggere su di sé il vincolo immaginario con questa organizzazione sociale dal tratto liquido e centrifugo che schizza via i consociati secondo il riflusso del mercato del lavoro, che tende a sparigliare, riallocare e settorializzare, cioè a dividere e allontanare in base ai suoi bisogni logistici (è, per inciso, Bruno Ballardini a ricordare che la logistica è un sapere tecnico dell’industria bellica e che da essa discende il marketing, di cui ormai è fatta la comunicazione politica).
L’effetto di senso non è riconducibile, però, solo alla comunicazione politica o alla sua narrazione, perché sta annidato in loro pronto a detonare, a condizione che la rappresentazione l’abbia come fine, anziché avere come fine se stessa, cioè che sia espressione e non comunicazione. Viceversa si avrebbe ragione a dire che il senso è qualcosa di meramente soggettivo e che qualunque cosa può averne a seconda di chi le sta dinanzi, mentre non è così: perciò il senso non coincide nemmeno con qualcosa che definiremmo vero o giusto o inevitabile o generale. È propriamente quel qualcosa di aleatorio che, al momento – data la manifesta incapacità della Rete di farlo –, possiamo sperimentare solo nel rapporto diretto col (discorso e lo stile) politico: il senso è farlo senza un “linguaggio civile e rispettoso” e senza “darti del tu”.
Il tema del cyberbullismo, che col ddl 1261 in esame alla camera, a marzo di quest’anno ha richiamato nuovamente l’attenzione su di sé, è sempre sintomatico di un ragionamento sotteso.
L’incapacità delle figure formatrici, nello specifico genitoriali, a mantenere intatta la comunicazione coi giovani, nello specifico i figli (ma potremmo fare lo stesso discorso per insegnanti e studenti), viene riversata sul generale, cosicché – per le fragilità di alcuni singoli – si stringono le maglie per tutti. La cosa avrebbe anche senso, se solo non si restasse nel paternalismo di Stato, cioè in una modalità di comunicazione deleteria, che mette insieme il “rispetto distante” (tutta la querelle sull’individuazione di criteri censori dei contenuti in modo da lasciare in giro solo quelli “corretti”) e la “confidenza vischiosa” (non avendo comunicazione con mio figlio, ne faccio una questione che “in fondo ci riguarda tutti”, posizione falsa, dato che internet, come la droga, tende a uccidere chi è inconsapevole).
Tuttavia, restando al quadro della comunicazione politica, la questione è stata subito assorbita ed è divenuto diffusissimo l’ultimo messaggio di Carolina Picchio (a marzo ricordato dal padre in una lettera indirizzata a Laura Boldrini sul tema) “Le parole fanno più male delle botte”, che subito è servito per dichiarazioni a effetto, ma nessun discorso è stato organizzato rielaborando in chiave propositiva il dramma: solo in chiave repressiva.
Una posizione così apparentemente di buon senso (“regoliamo internet e salviamo i nostri ragazzi”) si rivela poi, di fondo, inaccettabile perché agisce l’applicazione unilaterale di una misura restrittiva, una volta applicata la quale, tutto è fittiziamente risolto, ed è percepita come ingiusta, incongrua perché l’applicazione dello schema che regola i rapporti subentra al rapporto stesso, risultando smaterializzato il rapporto. Il desiderio di proteggere i ragazzi si trasforma di fatto in un modo per punirli.
Ciò perché è problematico individuare un registro, terzo relativamente ai due estremi del mondo simbolico passato (rispetto distante) e del mondo simbolico passato che si ripropone come attuale (confidenza vischiosa), per proporre un “mondo nuovo”, un “futuro”. È improponibile, infatti, che un discorso politico progressivo sposi uno dei due estremi suddetti, dato che vengono a valle percepiti come ingiusti, entrambi assecondando la punizione sommaria: in quanto strumenti di controllo di un gruppo sull’altro, mostrano d’intendere la punizione (e di converso la giustizia) nello stesso modo.
Così come gli estremi si ritrovano nel vedere la giustizia come umiliazione del reo che non ha soddisfatto i requisiti, il registro terzo (che rimanda all’utopico mondo nuovo, a un futuro più giusto) deve sostanziarsi nella disgiunzione di reo e colpevole per mezzo della fiducia in un sistema che li recupererà al futuro. Per questa ragione una posizione come quella della restrizione (di internet o dei ragazzi) in-nome-di un qualche altro bene superiore, sarebbe battuta in partenza: interviene sul sintomo lasciando covare la malattia e, soprattutto, crea “il precedente”.
I rapporti sociali nei loro vari gradi non si creano solo con l’applicazione delle regole comuni, ma anche attraverso la somma dei precedenti. Inutile agitare lo spauracchio dell’anarchismo nelle sue varie forme (“siamo nel caos, ci servono paletti” detto nei più vari contesti), per evitare l’effetto spirale, serve che, insieme al rispetto delle norme, i precedenti (ossia i rapporti intercorsi realmente in un gruppo) esprimano solidarietà nella convivenza e non punizione per la punizione, restrizione autoreferenziale.
Il terzo registro non auspica restrizioni della libertà in nome del rispetto o della sicurezza, non cerca di allargare indefinitamente il problema facendone un discorso generale, ma s’incarica d’individuare e rappresentare il disagio “discreto” (in senso matematico) dei soggetti. Si dirà che è utopistico, ma a questo sono sempre servite le utopie di società giuste e felici con cui confrontare la propria e constare cosa non andava: solo questo permette al discorso politico progressivo di contrapporsi credibilmente a ogni forma di passato riciclato.
Siamo in un ottimo momento per recuperare l’uso dell’utopia (internet, nella sua ambigua strumentalità, ha anche questo valore di realizzatore d’utopie), ossia del programma politico come percorso di senso nella oscurità del presente, ma i pensatori politici e non si sono sottratti al compito di parlarne, spaventati dalle utopie ottocentesche che hanno preso corpo nel Novecento: crollate le loro spoglie, al pensatore è toccato constatare che le utopie (come le idee, la conoscenza, ecc.) non avevano evitato o salvato dal baratro e che, in definitiva, il pensiero si era rivelato inutile. Per questa incapacità comunicativa e di pensiero, prevale l’internet-moloch, quintessenza delle fantasie apocalittiche sul futuro, e nessuna idea valida sembra potersi contrapporre nel dibattito pubblico sul tema a questo discorso populistico materno che fa sfogare la frustrazione e non chiede di emanciparsi dalle proprie paure, che incoraggia ad agire senza comprendere – perché, in fondo, nessuna idea è stata capace di salvarci finora.
A questo punto, le forze progressiste – anziché volgere nuovamente all’utopia, nel senso che abbiamo detto – si perdono, perché non canalizzano la rabbia se non in un estenuantemente lungo automiglioramento, non avendo una concezione alternativa di cosa è giusto fra limitare la libertà e garantire il controllo, come se incrociando i termini l’orizzonte andasse ben oltre i loro compiti. Invece, proprio limitare il controllo e garantire la libertà, cioè la consapevolezza e il sapere – un compito di lunghissimo periodo e larghissimo impatto, praticamente inconoscibile coi sondaggi –, risolverebbero la questione.
Si parla dell’analfabetismo di ritorno come di presagio della caduta della cultura occidentale, come fosse la causa di quest’ultima, mentre l’istruzione è la conquista delle società evolute: l’analfabetismo è la conseguenza dell’involuzione da lungo in tragitto di questa società.
Si parla retoricamente, in proposito, di genitori irresponsabili sia perché incapaci di comunicare coi figli sia perché incapaci di dar loro delle forme di vita attraverso cui formarsi, ma questo giro di parole serve a nascondere il confortante ritornello “ai giovani mancano le regole” sotto le mentite spoglie di un’autocritica del sistema educativo. Non è forse analogo al discorso del populista riguardo minoranze come rom, omosessuali, immigrati ecc.: “a questa gente mancano delle regole”? Specularmente, i progressisti dicono “creiamo delle regole in cui anche loro possano stare”, che tornando a internet diventa l’idea di un internet rispettoso e controllato. Nessuno dei due si occupa delle condizioni di disagio sottostanti, ma solo di ordine.
La povertà del discorso progressista sul futuro sta nello sposare dei facili cliché sulla società, che poi la realtà si occupa puntualmente di sovvertire. Come nel caso del cliché dell’individualista, visto come disgregatore dalle ideologie della sinistra progressista e liberal, viene spogliato dei tratti carismatici del solitario, e viene chiamato troll: egli è di fatto l’uomo non organizzato, che vuole curare solo il suo orto, che non vuole incatenarsi a nessuna baleniera e non prova interesse che per sé stesso, non nel senso della realizzazione narcisistica, anche se spesso qualcuno lo taccia di narcisismo. Il narcisista (che nel discorso progressista svolge il ruolo del cinico immorale nella commedia dell’arte) si rivela invece persona tranquilla, perché è così certo del suo credo da non provare che indifferenza per chi non lo condivide.
Qui, vale a dire, non è il reo/colpevole a creare la conflittualità del sistema – paradossalmente – bensì il dibattito politico che, sia attraverso il discorso pubblico e elettorale sia all’interno dell’istituzione, sposa la ritorsione per mezzo della comunicazione della punizione.
E qui potremmo porre una significativa simmetria: come ha ragione Saviano (Repubblica 17 febbraio) quando dice che lo Stato non era a Lavagna per assistere una madre, ma per intimorire e punire un ragazzo, così si ha ragione a dire che lo Stato non è qui a proteggere le vittime di cyberbullismo dando loro gli strumenti per disinnescarne gli effetti bensì a punire altri ragazzi privi come quelli di strumenti.
Come nel primo caso nessuno ha voluto notare che, dopo quella esperienza, in chiesa la madre non ha raccomandato di chiamare la GdF, in casi simili al suo, ma di tornare a parlarsi; così nel secondo nessuno si domanda perché, chi non dovrebbe avere niente da temere, alla fine, inspiegabilmente, teme.
La psicologa Naomi Ziv ha di recente pubblicato uno studio secondo cui certi generi musicali – come rock o rap – ci renderebbero più critici verso il mondo che ci circonda, influenzando l’umore in chiave depressiva (dato che – dice Ziv – i depressi tendono a essere più analitici); al contrario, generi più “distensivi” come il pop o le musiche di ascensori e centri commerciali o scelte come inni politici o jingle pubblicitari renderebbero sereni sul piano umorale e acquiescenti rispetto la situazione (Ziv ricorda che questo stato di distensione indurrebbe a preferire la ricerca di un accordo più che opporsi criticamente, anche a discapito della morale).
Questa ricerca potrebbe suggerire l’idea che una posizione politica capace d’incanalare costruttivamente il disagio anziché soggiogare le passioni tristi della società si riconoscerebbe da un inno politico heavy metal, hip-hop o rap, e sarebbe un’idea spiritosa se solo ciò non facesse venire in mente Fedez per il M5S.
In modo meno spiritoso, potremmo invece pensare a una posizione politica che nel suo programma elettorale – per riporre realmente fiducia nel reo scindendolo dal colpevole – propugnasse la dissonanza più grave di tutte: quella che la pena deve essere “gratificante”, il terzo luogo ideale che la politica non vuole determinare, rimanendo sulle posizioni punitive o surrettiziamente liberali, conniventi col sistema repressivo.
Perché impazzano le religioni e le psicoterapie (tenuto conto che è solo perché esiste la psicanalisi che la religione è in crisi)? Perché rendono l’espiazione una cosa godibile, una liberazione. Il redento, il sanato, il rinato sono figure positive di recupero (testimoni, “prove viventi”); certo in un’ottica di normalizzazione del deviante, cosa che porta immancabilmente a essere renitenti al differente.
Nel momento in cui identifichiamo lo scopo sociale in una cieca maratona dove ne resterà soltanto uno, chi si macchia di qualcosa non è recuperabile, ma da internare sul cammino.
Lo Stato (segnatamente gli eletti, dato che gli strutturati lo fanno da tempo notare, salvo poi fungere da inceppamento a ogni riforma), che avrebbe i titoli e i mezzi per farlo, invece, associa continuamente la propria punizione al vituperio e alla sconfitta; che sarebbe come se Francesco parlasse continuamente di peccato e dannazione, anziché di amore e perdono. Anche lo Stato perdona, ma stenta a manifestarlo e l’evasore che fa rientrare i suoi capitali pagando una penale è visto come un lestofante, anziché venir riabbracciato in seno al tessuto sociale, stante il fatto che col suo comportamento dovrà comunque continuare a restituire alla società quel che le ha tolto. Una bella porzione di italiani, non si sa bene perché, vede la giustizia come una forma di vendetta: bisogna “rifarsi” sul reo e se lo si sottopone a qualche trattamento che lo faccia un po’ a pezzi e magari lo porti al suicidio è tanto di guadagnato.
Il reo dovrebbe invece diventare il figliol prodigo delle istituzioni pubbliche.
Perché la pena deve essere umiliante? Perché non può essere un passaggio dell’esistenza che, come gli altri, passa? Invece, è d’una certa perversione dell’idea di onestà prevedere il fine pena mai.
Se i manager condannati per la Tyssen fossero stati messi, per il periodo detentivo, anziché in carcere, a svolgere le stesse mansioni degli operai morti? Alla fine del periodo la società avrebbe riavuto un manager con un punto di vista assolutamente diverso dai suoi colleghi che non hanno mai lavorato anni a una linea produttiva, più esperto dell’ambito che si avvia a dirigere nuovamente, forse meno disposto a bypassare su certe cose.
O, per cambiare reo, il cyberbullo s’immedesimerà nella sua vittima davvero grazie alla rieducazione statale magari carceraria?
Pur mutuandone l’inferno, non siamo stati in grado di trasformare la pena in una forma di perdono, nella soluzione di un problema: lo Stato ha abdicato al miglioramento, dunque come può la politica parlare di “progresso”?
Questo è un fallimento della società secolarizzata, che è di fatto migliore di quella teocratica o ierocratica, ma non ha incorporato compiutamente il concetto di redenzione, di purificazione, reputandolo forse troppo nebuloso o controproducente. Quand’è che uno è redento? Non lo si può mai sapere, bisogna fidarsi di quel che dice lui e stare a vedere che fa. Il nodo della fiducia è quello nevralgico della nostra società: non ci fidiamo del punito (ma non ci fidiamo nemmeno del sospetto, nemmeno dell’innocente fino a prova contraria, dell’avvertito per la garanzia di tutti, cioè sia sua che nostra), solo se lo vediamo a terra privo di sensi possiamo cominciare a pensare che abbia capito la lezione.
Questo insegnano paesi in cui le libertà sono viste come minacce a causa di una politica incapace di disegnare il senso del disagio in rapporto al mondo. Ciò costringe chi è investito dai cittadini sovrani del mandato a internare e riabilitare, a infliggere invece violenza in modo che sia palese a tutti che il reo ha subito il “giusto” castigo. Ma quando è sufficiente? Ad abundantiam, non si è mai troppo sicuri che il messaggio educativo sia passato. Repetita iuvant, per essere certi. Torna la connessione fra educazione e giustizia, per mezzo del “giusto”, benché declinata in chiave repressiva.
Perché invece non educare al bene col bene? Perché non pensare che chi ha commesso una colpa possa anche essere messo a espiare in un modo che gli faccia bene, non necessariamente straziante o degradante? Non spetterebbe, del resto, proprio al reo redento di spiegare perché la società condanna certi atti? E non toccherebbe proprio a lui, come testimone, spiegarci perché usiamo prigioni? Altrimenti chi stabilisce cos’è e a che serve una prigione, chi non è dentro?
È all’incirca così che la prigione diventa un’arma.
Non è certo che, per contrapporsi al deterioramento del discorso populista, una politica autenticamente alternativa possa dire qualcosa di meno dissonante di questo.
Da qualche settimana, il programma diretto da Diego Bianchi su Rai3, Gazebo, è protagonista di un fenomeno tutt’altro che marginale all’interno della comunicazione politica: il Movimento Arturo.
Chi vuole saperne di più troverà tutto online, ciò che ci è utile dire qui è che: il modo in cui il Movimento Arturo ha preso piede nel pubblico (superati in poco i 50.000 follower su twitter, surclassando qualunque forma di comunicazione fin qui adottata dagli altri partiti) è rivelatore della posizione che gli elettori vorrebbero occupare nel discorso e della posizione che invece i politici occupano nel discorso secondo gli elettori.
L’interessante di questo “movimento” è che è stato suscitato da due cose vuote (o “a vuoto”, com’è il dono): un gesto gratuito e un nome proprio. Col primo ci riferiamo al fatto che Bianchi, D’Ambrosio e Salerno hanno creato un contenitore (un vuoto) fatto apposta per contenere un qualcosa di simile all’umidità in sospensione, come un deumidificatore che ha raccolto un umore diffuso nell’aria, e senza – per il momento a veder da fuori – il minimo “costo”: un inveramento del monito morettiano a prendersi il partito e a farci ciò che si vuole. “Prima regola del Movimento Arturo: non ci sono regole. Fate da soli ma fate educati. Siate d’esempio e restate Arturo” è il tweet-manifesto di Salerno. Più gratuito di così.
Comunicativamente è il nome la cosa più accattivante, oltre che per la sonorità vintage, per il fatto di non esprimere nulla, a differenza di nomi impegnativi come Libero. “Rimanete Arturo” è un proposito etico fortissimo, proprio perché non poggia su nulla, “non torna”: col suo essere vuoto, o aperto, invita il soggetto a riempirlo, a proiettarvisi dentro, a puntellarlo partecipando. Per questo “Rimanete Arturo” è più completo di qualunque carta di principii: esprime contemporaneamente un precetto e la necessità che sia l’altro a cooperare per attualizzare il precetto, che altrimenti suona solo come l’insensato “Resta ciò che sei”.
È cioè rilevante che l’impianto etico di questo movimento, invece che basarsi sulla divisione dall’avversario (che non si ha nemmeno l’onestà di chiamare nemico) per legittimarsi e sostenersi, sfiori la dissoluzione aprendosi allo spasimo ma la scongiuri per il suo saldo ancoraggio al senso di essere “Arturi”, che significa prima di tutto – circolarmente – “fare educati” e soprattutto da sé.
Perché ancorare il senso (dello stare con gli altri) al “fare educati”, fare secondo regola, cioè alla giustizia? Il collegamento può sembrare solo indiretto alla comunicazione politica, ma unicamente per una limitatezza della prospettiva nel vedere la questione, limitatezza manifesta quando il dibattito approda alla formula “manca il dialogo”.
Senza giustizia non posso programmare il mio agire nel contesto simbolico in cui sono e vengo automaticamente escluso come agente della società: è necessario che ci sia un ordine implicito che, nel suo ricorrere, riveli le regole del gioco; senza queste regole, questo corredo di valori e la loro assiologia, ovvero se ciò è contraddetto nei fatti, lo spazio d’azione del soggetto s’annulla istantaneamente. Dicendo di rimanere Arturo, ciascuno è Arturo senza che nessuno ne sia davvero il depositario: Arturo è lì da sempre e per sempre, perché il contenuto è da sempre nel soggetto, ma ora s’è strutturato un vuoto in cui il contenuto può agire. Serviva un gesto gratuito che rivelasse al contenuto (l’umidità in sospensione) il suo contenitore (Arturo), vuoto ma non neutro.
Tuttavia l’idea del Movimento Arturo rimane vaga e stramba (uno dei soliti colpi di testa delle masse incolte e inconsapevoli) senza una contestualizzazione che faccia capire il clima che ha reso possibile a molte decine di migliaia di sconosciuti di riconoscersi come Arturi: il contesto è ovviamente la contraddizione patente fra gli scopi che la collettività ritiene che lo Stato o la politica debbano avere e i comportamenti posti in essere da Stato e politica, ma nel quadro più generale di una sclerotizzazione etica delle istituzioni.
Lo smarrimento, la repressione, la corruzione visibili in disparate occasioni (nell’ingerenza dello Stato a Lavagna, nella maschera popolare del proibizionista – da un lato duro nella repressione e dall’altro quasi solidale con le mafie nell’ostinazione a perseverare in misure inefficaci e lesive della libertà individuale dei cittadini –, nei discorsi di circostanza offerti dalle figure istituzionali ecc.), l’acquiescenza della rappresentanza politica davanti al disagio manifestato dalle fasce di popolazioni marginali (ne è sintomo il suo passaggio da luogo d’accoglienza a programma logistico su blog) sono fenomeni che comunicano un’idea chiarissima: che l’agire politico non è più inteso come strumento per alleviare il proprio disagio e che la sua fuga simbolica è inaccessibile.
Così, da simbolica, diventa “fuga di cervelli”, “crescita zero”, “neet”; espressioni che designano la fine della vita in una società, ovviamente sotto il profilo della produttività e della perpetuazione del sistema, laddove invece crescono e moltiplicano le forme devianti creative (come per esempio quella dell’“arabic trap”, genere musicale veicolato sul web da video che ironizzano sugli attentati terroristici seguendo i canoni dell’ironia rap) su tutti gli oggetti “scabrosi”, creando impreviste declinazioni della contestazione, come prima faceva la satira, riprendendone l’idea di show come attentato e volgendola in attentato come show: una cultura a cui non ci si può contrapporre perché integrale.
I suicidi dei giovani si presentano come performance conclusiva di un lungo sfibramento della effettiva possibilità e capacità delle persone di poter agire per migliorare la propria vita (di converso affermando che un gesto radicale come l’attentato possa farlo, pur uccidendo l’attentatore), certificando l’eclissarsi di una modalità che sia rispettosa senza essere distante e anche amichevole senza diventare oscena, quella del dialogo (con le sue regole) amichevole, che così viene a evidenziarsi – nel confronto col web come mezzo – in quanto strumento primo dell’interazione sociale.
Nella società sotto vari profili immiserita, il politico dovrebbe riallacciare il filo del dialogo e dello scambio simmetrico, amichevole nel senso di reciproco, non uguale bensì equo, con ciò svolgendo l’esempio, l’educazione. Ma a dirlo si verrebbe tacciati di platonismo o peggio, senza aggiungere che tale operazione politica ha un medium simbolico estremante preciso senza del quale non può attualizzarsi, ossia far combaciare mondo e verità, di per loro incongruenti, nella sostanza evanescente del senso: così, dal gesto comiziale, un po’ alla portata di tutti (ma non di tutti), passiamo alla “carezza” che, fra i bisogni basilari e complessi, è lo strumento con cui idealmente gli umani dissolvono il disagio dell’impasse di relazione, il gesto che fonda il programma etico alternativo a quello repressivo.
Il tema non è inedito, né inesplorato, anche praticamente, anche in Italia. Da noi si è chiamato Pannella, che in una prefazione del ‘73 scrive: «Credo sopra ad ogni altra cosa al dialogo, e non solo a quello “spirituale”: alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come fatti non necessariamente d’evasione o individualistici», richiamando la compenetrazione di educazione e amicizia nella paideia, lo strumento attraverso cui si dà scopo alla differenza. E si è anche chiamato Berardi “Bifo”, che in Come si cura il nazi del ‘94 propone di “curare” il nazi appunto con carezze. Mentre all’estero si è chiamato Deleuze, nel cui nome si è parlato di “anarchismo del desiderio”. Il dialogo (politico e filosofico) ha bisogno della filia per la conoscenza perché originata da un sapere basato sul contatto, per questo la giustizia (e la conoscenza, la comunicazione) sommaria non è giustizia (conoscenza, comunicazione) – o, meglio, è inefficace.
Ma il sapere basato sulle “carezze”, per non ritrovarsi sul piano ideologico dell’utopia pura, deve essere inquadrato in modo affatto diverso: prossimo alla “carestia”, come nel Simposio Eros è discendente di povertà oltre che di abbondanza, affinché la comunicazione dell’agire incontri il disagio invece di perpetuare la lallazione dell’autorappresentazione.
A Gazebo è bastato prendere un vecchio nome proprio e dire di essere educati per avviare un fenomeno che, finché non si sarà sgonfiato da sé, sarebbe imprudente definire periferico: è proprio l’opposto di quanto succede normalmente ai partiti quando tentano di darsi un nome e un programma politico, di solito accolti come l’ennesima marca di detersivo.
Ecco come, in questa primavera 2017, fa la sua ricomparsa sul tavolo un vecchio amico: l’esempio che attualizza il messaggio; il “bel gesto”, per citare Greimas, che permette a un vuoto di essere investito di valori e emotività, senza essere salutato dai rumori di fondo e dai lontani sbadigli d’un elettorato che ha rinunciato alle seduzioni politiche sul futuro.