La notizia della fine dei “Simpson”, dopo 28 stagioni cominciate nel 1989 (compleanno ingombrante da “fine della storia”), è più di una news su un fenomeno di costume o la cesura di un’epoca televisiva.
Il nocciolo della trama degli episodi con cui “The Simpson”è andato avanti per i primi anni (almeno fino alla decima stagione, anno in cui la serie ha cominciato a subire una flessione d’ascolti) è sempre rimasto relativamente stabile: ogni volta, a partire da un pretesto rocambolesco e spettacolare, si diparte un secondo filo narrativo (quello “principale”, in quanto preludeva alla morale finale) da cui si desume sempre un duplice lieto fine, quello narrativo relativo alla storia (il ritorno alla normalità dopo, poniamo, qualche follia di Homer) e quello emotivo riguardante la ricomposizione dei dissidi (i frequenti abbracci di riconciliazione che si scambiano i personaggi a fine episodio).
I dissidi che erano posti in essere dagli schieramenti sociali, si trovavano rappresentati (gli anti-sistema progressisti con Lisa e quelli edonisti con Bart, la middle-class responsabile con Marge e quella crassa con Homer) nel corso di un ribaltamento di prospettive che poi portava sempre alla ricomposizione essenziale: quella dei Simpson stessi che, fra le varie meta-narrazioni opposte, mantenevano la narrazione fondamentale – dell’amore comune – che li univa al di làdi ogni divisione (vista come) fittizia.
Uno schema simile si ritrova (nei Lineamenti di filosofia del diritto) nel modo in cui lo Spirito Oggettivo hegeliano s’incarna nello Stato.
Nel primo momento, l’intro (il Diritto Astratto) viene apparentemente sovvertita (“negata”, secondo la Fenomenologia dello Spirito) da un evento che rovescia la logica consequenziale degli eventi (il Delitto, per la Fenomenologia) e conduce invariabilmente al conflitto in tutte le sue varianti: Homer e Lisa si scontrano su temi come l’animalismo o il vegetarianismo, Marge e Bart litigano per problemi di disciplina, Homer e Marge si lasciano spesso, Bart e Lisa fanno da sottofondo coi loro bisticci. Solo a questo punto c’è l’ulteriore momento hegeliano della Pena, in cui viene – non solo posta, ma anche – agita la legge, che così si riafferma come principio universale di tutte le parti in causa al di làdi ogni negazione: l’amore, la coesione nella consapevolezza di amarsi oltreogni frattura contingente o come tale percepita, fa sì che i Simpson si riconfermino come nucleo familiare coeso e, simbolicamente tramite loro, la comunità che li segue.
Non a caso nei “Simpson”, alla fine di ogni episodio (dopo che la Pena ha inverato la legge universale), ha luogo il momento della Moralità, in cui – narrativamente – il personaggio “colpevole” si presenta come già-da-sempre pentito al tribunale collettivo e, hegelianamente, non gli rimane che accettare la supremazia della legge – anche qualora sia contraria alla sua condotta individuale – per il bene della comunità, posto come bene assoluto (“in sé” e “per sé”): ognuno dei personaggi in The Simpsonmuove da tale dovere verso il bene superiore della comunità (da tale “dovere per il dovere”).
L’efficacia narrativa della ricomposizione simbolica delle divergenze in nome dell’amore, a un certo punto, però, si è dimostrata esaurita. Ricordiamo che la flessione di ascolti, causa alla lunga della fine della serie, risale circa al 1999. Uno degli eventi di grande impatto sulla cultura americana, in quel periodo, ripreso anche da uno scrittore come Philip Roth in La macchia umana, è l’impeachment di Clinton, ossia il crollo della meta-narrazione classica sulla correttezza morale dei democratici: in questo caso, inversamente a come andò la sequenza degli scandali, si può dire che non soloun presidente democratico aveva mentito ai cittadini ma puresu una vile e ingiustificabile questione sessuale (divenuta patetica coi successivi distinguoimmaginari fra cosa è o meno sesso, operata dall’allora Presidente). Contestualmente, con l’era repubblicana di Bush, negli USA si afferma un paradigma impostato sulla divisione, dovuto al clima post-9/11, in cui è impossibile ricomporre circolarmente il dissenso in nome della coesione (sopprimere il conflitto per tenere unita la famiglia, amarsi per amarsi al di là di tutto, il dovere per il dovere in nome di un bene superiore ecc.), dato che non parliamo più di un avvicendarsi di conflitti interni all’occidente, dunque miranti ugualmente al mantenimento come minimo della convivenza comune, ma provenienti direttamente dal prodotto di “scarto” delle condotte occidentali, da quelle conseguenze inintenzionali di atti intenzionali, che hanno materializzato il nemico perfetto, fondamentalista e liberticida a tutto tondo.
L’Eticità (la pluralità in nome della coesione) sottesa al momento morale dei Simpson e alle istituzioni in cui si realizza (“famiglia”, “società civile” e “Stato”: Springfield) s’è dimostrata, alla prova dei fatti, nient’altro che un’evanescente posizione di comodo e non un solido puntello morale: il messaggio etico d’amore che esprimeva si è piegato alle logiche divisive di un altro messaggio (come quello repubblicano) basato sul senso di appartenenza, tant’è che – com’è d’uso nella sinistra liberale – il messaggio inclusivo si è stereotipato e l’atteggiamento critico dell’ironia contro il sistema di potere si è trasformato in umorismo più o meno sfrontato.
“I Simpson”non potevano strutturalmente sopravvivere, perché l’“amor omnia vincit” è stato messo alla prova dalla circostanza tipica in cui gli Stati – e, per mezzo di essi, le idee etiche di fondo che li reggono – si confrontano: ossia, come ricorda sempre Hegel, dalla guerra. E ha perso.
La fine delle storie della famiglia Simpson diventa così sintomo d’una impassedi fondo che, a livello narrativo, è visibile in inceppamenti e ibridazioni della serie (pensiamo a Futuramao ai Griffin), mentre, risalendo alle sue cause per mezzo della lente hegeliana, le troviamo in un duplice evento “imponderabile”: da un lato la crisi ideale (l’impeachment di Clinton per una patetica menzogna) e dall’altro il conflitto radicale (con l’altro fondamentalista e con se stessi per la propria inadeguatezza etica a reggere il conflitto reale).
In guerra, la posizione della ricomposizione circolare dell’armonia ha dimostrato l’imbarazzo di non essere sufficiente per resistere a una sorta di “richiamo all’ordine”, di stampo patriottico, in nome del quieto vivere, dichiarandosi vinta in partenza: non è valsa in quanto tale, ma ha avuto bisogno di sostenersi sul suo opposto.
Le conseguenze sono due. La prima, già vista, è che il meccanismo narrativo dei “Simpsons”non poteva che entrare in crisi, non riuscendo più reggere la finzione di credere in una ricomposizione che il contesto ha reso fittizia per definizione. La seconda è che i Simpson finiscono in quanto, il sottotesto di base che imposta e regola i rapporti del loro mondo diegetico, davanti a fratture provenienti dal reale e non interne al proprio catalogo immaginario di valori, ha ceduto, scoprendo che non tutti i conflitti si risolvono in nome dell’amore: in questo modo, è come se i personaggi stessi si fossero resi conto di non essere più in grado di raccontare le loro storie di riconciliazione.
È di questo che ne va con la conclusione di tale specifica serie, che sembra così finire nell’obsolescenza per il crollo di un’ideale sentire nella comunità, ma non è così.
Abbiamo dimenticato Maggie, che – al di là di ogni ricomposizione in nome dell’amore – non parla, come lo scrivano di Melville. A posteriori, più che sul bene generale dell’armonia, risulta che l’intera serie si è retta sul silenzio di Maggie, che tacendo sostiene il limite di quella narrazione (apparentemente) fondamentale, partecipando comunque per “dovere” nei confronti di essa.
A differenza dei suoi familiari, lei non costruisce conflitti fittizi per poter riaffermare il principio generale dell’amore: lo esprime pragmaticamente all’occasione e, più idealmente, trattenendosi dal dire qualcosa che rovinerebbe tutto, cioè che l’etica dei Simpson è surrettizia, che l’amore non unisce al di làdi tutto, perché esistono conflitti fra posizioni etiche che sono in insanabile attrito. Con le gengive serrate sul ciucciotto, Maggie sta lì a tener chiusi i bordi della finzione, come un bottone che trattiene i lembi della camicia, e contemporaneamente «ritiene che il suo oggetto abbia il valore di vero perché essa raccoglie in una unità autocoscienza e essere, [il suo oggetto] è realein se stesso perché ha in sé la differenza della coscienza»: assorbe questo meccanismo morale come dall’esterno, decidendodi mantenerlo, senza bisogno di riaffermarlo nevroticamente come i suoi parenti, ma provvedendo a farsene carico.
Da questo punto di vista, l’esaurimento dei Simpson è l’inevitabile dissolvimento della Moralità nell’Eticità, rappresentata nei fatti da Maggie. È curioso che nessuno, finora, abbia pensato di raccontare l’evoluzione di questa bambina che, pur amando i suoi familiari e proteggendoli dai pericoli del reale, col suo silenzio, sistematicamente, dissente dal loro mantra protettivo sapendolo fantasmatico: chissà se è stato chiesto, alla fascia di spettatori più giovani, cosa pensa della situazione paradossale di questo personaggio “minore”.