Cosa cova sotto la cenere?
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Scorrendo i titoli di alcuni libri di scienze sociali che negli ultimi anni hanno riscosso un interesse maggiore rispetto ai loro colleghi fra il pubblico, c’è poco da stare allegri: La civiltà del disagio, La società della stanchezza, La società opulenta… e qualcuno lo si può persino ipotizzare (La comunità del disinteresse sui giovani, I tiasi della sottomissione sulla condizione femminile, L’iper-vetrina dell’insipienza sull’ebetismo digitale, per proporne alcuni).
Se ci si mettesse d’impegno, in poco si potrebbe stilare, anche con incursioni nel secolo XX, un catalogo di “sociologia della decadenza” attenta a tutti quei fenomeni inquietanti di cui siamo da tempo protagonisti.
Alcuni fenomeni non ancora ben trattati – anche se non manchevoli di una loro bibliografia – sono l’anonimato e il tempo immobile.
L’anonimato ha più o meno i suoi tratti definitori: da Anonymous ai Daft Punk, dai Gorillaz a Bob Dylan a Occupy W.S., non mancano i casi di empatia e mimesi collettiva destata da personaggi e movimenti in cui l’individuo non è schiacciato ma consenzientemente nascosto dall’anonimato della massa o dalla discrezione. Non a caso, il filosofo Pierre Zaoui dedicò un Elogio alla discrezione, descrivendola come un atto di rivolta silenziosa (l’unica possibile in età di selfie) contro il corrente regime di spettacolarizzazione chiassosa.
Meno noto il tema del tempo immobile, ma se si spulcia l’internet qualcosa si trova. Da tempo gli studiosi osservano lo spostamento dell’ormai consolidato filone della Nostalgia – presente in programmi televisivi, musica, moda e così via – sugli anni Ottanta e Novanta, cioè il passato recente che i venti-trentenni hanno vissuto, già nostalgici delle perdute infanzia e adolescenza.
Il fenomeno del tempo senza progressione, l’assenza del futuro oltre la crisi (vissuta come l’assenza di una meta verso cui proiettare il proprio inizio), fa sì che anche i giovanissimi siano nostalgici del bel tempo che fu e tornino a bandane, jeans a vita alta, Pac-Man, Super Mario, musiche da discoteca come minimo vintage.
L’anonimato e il tempo immobile, la discrezione e la nostalgia precoce, pur covando sotto la cenere dell’apatia (pensiamo, volando basso, per esempio, a Gli sdraiati di Michele Serra) moltissima aggressività, s’estrinsecano sotto forma di “normalità”.
Per quei giovani che si misurano ogni giorno col lavoro del dopo-2008 (scorcio di cronaca che essi vivevano da studenti/tirocinanti/apprendisti), la normalità è un valore sovrano che tutto travolge. Chi si tira indietro dalla compiacenza dello showbiz, dalla sofisticata etichetta dell’arrivismo, dalla masturbazione della vanità intellettuale e dice le cose dritto per dritto, tenendo conto che parla a persone che per molto ancora non accenderanno mutui, diventerà ai loro occhi impegnati a scremare l’immondizia di cui siamo mentalmente intasati degno di attenzione, perché non farà perdere tempo con la circonvenzione delle argomentazioni – ciò che conta è la messa in opera, la dimostrazione, l’esempio.
Certo, contestualmente a questa riscoperta della normalità (che è pure sicurezza e stabilità), c’è il fenomeno del tutto opposto incarnato dai Rich-Kids, che o mostrano di spendere, spandere e distruggere ricchezza apposta (parliamo di ventenni o quasi che comprano fuoriserie per incendiarle o tirano lo scarico dopo aver buttato un po’ di rolex nel water, cose così) o esibiscono un’esistenza fatta di sfilate esclusive, grandi concerti visti dal backstage e tutto quel che a quell’età può ispirare il concetto di “extravita”. Ma questo fenomeno è già assodato, superato dai cicli del trash: la normalità lo ha vinto dall’interno.
Si osservi la triste, ricca, banale normalità di una coppia facilmente iconificabile come Chiara Ferragni e Fedez o qualcuno di simile.
Solo per far sorridere si fanno polemiche sui vizi dei giovani coi soldi, si additano i loro eccessi all’indignazione dei percepitori di voucher, perché ciò che più dovrebbe far pensare è la loro mancanza di immaginazione nello spendere, che fa anche di quello sfarzo qualcosa di cui sbuffare.
Nessuno chiede, per rimanere nell’esempio, a Fedez di comprare cento dischi di De André per regalarli in piazza Gae Aulenti, non è proponibile porre una simile attività a paragone con la dissipazione pura, ma almeno potrebbe acquistare e far brillare in acque internazionali un’imbarcazione storica di qualche significato patriottico. Si tratta dello stesso limite che spinge a viaggiare sul proprio aereo privato, magari pilotato da sé, perché si fa prima ad andare a trovare la fidanzata nel continente affianco, anziché viaggiare su un treno personale con un ampio stuolo di addetti di bordo, fermandosi a ogni tappa per salutare gli amici di penna: sfugge loro che è lo spreco del tempo il più sublime concesso all’uomo, inaccessibile anche agli imperatori.
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La differenza fra i giovani coi soldi e quelli coi voucher, dunque, non è fuori dal campo della normalità come valore (una normalità raramente oltre l’ordinarietà), e verte sempre su come spendere e dissipare la propria disperazione, la propria insensatezza. La competizione fra giovani ricchi a distruggere status symbol, invece, riguarda solo la ricerca di tonalità da dare a quella dissipazione originaria. Sempre secondo le categorie dell’Io-Social così come emergono autoevidenti in bacheca.
La normalità cela questa necessità di fare a pezzi tutti i falsi obiettivi, di fare ordine e pulizia, né più né meno come i loro nonni nello sparecchiare. C’è una necessità dell’essenziale vissuto come basamento, per cui la domanda disperata diventa “Che succede se stasera sto a casa e guardo un film in streaming?” per i vocucheristi e “Che succede se stasera sto a casa e faccio tiro a piattello con cinquanta ipad di ultimissimo modello?” per i figli degli oligarchi mondiali. Ma arrivati all’essenziale, esso rimane chiuso alla comprensione.
Non siamo lontani dai quadri di Bacon o dal teatro di Grotowski come istanze, ma in perfetta inconsapevolezza, con sicura cognizione del mondo iconico che li circonda e scioltezza di sottintesi e non-detti del gergo social, ma per nulla autocoscienti.
Di conseguenza, a livello estetico, la sottile patina dell’ordinario in assenza della progressione storica del tempo immobile, si trasforma nel gusto per il trash, trasversale a tutte le ormai poche e distanti fasce di reddito.
Il gusto del trash è un fenomeno parallelo alla vecchiaia percepita dei trentenni: non c’è più una produzione virtuosa di novità, non c’è un superarsi verso la meraviglia positiva (nessun discorso politico o sociale, artistico o pop che si protende in un futuro promettente), dunque non c’è che da rassegnarsi alla situazione – dedicarsi a svaghi raramente di svago – coltivare interessi poco interessanti – e assistere all’unica forma di superamento a cui oggi possiamo assistere: quella in peggio.
Ma se dietro il trash si cela magari un’aberrazione, spesso il fenomeno trash è solo qualcuno che ha preso il filone sbagliato di un’esplorazione sotterranea.
La generazione dei venti-trentenni si appropria del trash e continua in proprio l’esplorazione del sottosuolo, ben rappresentato dalla tv commerciale e da internet, dove magari si scivola dall’acidata di Michela Murgia a Fabio Volo alla gaffe imbarazzante di qualche politico, da uno svarione di Vittorio Sgarbi a uno scontro fra razzisti e immigrati, nel frattempo sviluppando un discontinuo background di canzoni, abitudini e riflessi condizionati derivanti da un’esterofilia e un’ignoranza diffuse.
Questa normalità che rompe tutto per arrivare al nocciolo li rende frammentari, com’è tipico di chi non ha altre conoscenze che quelle arrivate alla spicciolata dalla realtà (poche) e dai media (troppe), cioè prive di qualunque organizzazione del pensiero o profondità d’idee, che restano perciò irriflesse, refrattarie a ogni ampliamento o coerenza o continuità, come i contenuti del loro vissuto (che al contrario, invece, potrebbe essere già stato adeguatamente sviscerato insieme a un terapeuta pagato profumatamente dai genitori per dispensare ritalin fino a fare di detto vissuto una fettina panata).
Peccato solo che non abbiano armi contro questo scivolamento, all’infuori di un’impenetrabile indifferenza verso tutto che certe volte assume i tratti di qualche smodato e acritico infognamento variamente ideologico.
Le capacità salvifiche che sviluppano perché avulsi dal contesto, senza contesto, senza tensione al miglioramento (che coincide solo in parte con la “posizione”), si trasformano in una specie di freezing che ha il solo potere di ripararli un po’ dall’orrore.
Nel frattempo che procedono gli scavi e le ricerche nell’abisso del superamento nel peggio, della nostalgia per “la tv di allora” e “i cartoni/videogiochi dei miei tempi”, del ritiro verso una precocemente arzilla mezz’età, al di sopra del manto della normalità continua la distruzione dell’inutile per l’essenziale, di cui nulla sanno, nemmeno come individuarlo.
Una situazione che indubbiamente genera ansia da controllare, ma per la generazione dei voucher e dei liberi professionisti stress e stanchezza non sono giustificazioni per ridurre la produttività, quindi vengono respinte sotto la cenere della normalità, dove il lavorio si sotterra.
Se poi, per ridurre i carichi di nervosismo, si passa la sera in casa anziché uscire nel caos cittadino e si distrugge un piroscafo anziché involarsi da un viadotto, lo si può capire. Del resto, in ogni parte del mondo, i ragazzi manifestano nervosismo: qualcuno spara sui compagni, qualcuno diventa un pirata informatico, qualcuno raggiunge il fratello nelle schiere dell’Is. L’ansia sempre in qualcosa è destinata a tradursi.
C’è da domandare ai sociologi di farsene accorti.