E se il “bene” non avesse capito?
Il populismo si scopre ora per non essere altro che un concetto vuoto e mal capito quando s’è provato a colmarlo.
Con questa parola, oggi è finalmente chiaro, si allude alla politica dell’ora-e-basta, ispirata all’assoluto presente, pochi maledetti miglioramenti e subito, senza grandi visioni (cioè visioni che, per la loro estensione arrivano oltre l’orizzonte e il domani, ossia fino a un luogo troppo lontano per chi è senza lavoro e prospettive), senza chiacchiere, che rubano tempo e confondono le carte in tavola.
Qualche benintenzionato (più di qualche) è già sulla tastiera per il ricamino finale: le forze progressiste, liberali o comunque ripulite, non hanno saputo dare risposte adeguate ai segnali della gente, non hanno intercettato il malcontento ça va sans dire, non hanno – alternativamente – saputo ascoltare o saputo comunicare. Il solito ritratto di un’aspirazione politica che vorrebbe “rassicurare” e non è neanche capace non di riformarsi, ma quantomeno di guardarsi e capire cosa non va.
Non è questione di risposte (abbiamo visto che vanno tutte bene, non interessano), non è una questione di valori (anch’essi, s’è visto che più chiaro non si poteva, non interessano): è questione di modo.
E qui il politicante smette di leggere, perché narcisista e stupido com’è, gli repelle pensare che non sia il cosa dice (che, nel suo vuoto, è colpa del ghostwriter), ma il come: la sua faccia, i suoi movimenti, il tono della sua voce, tutta la sua prestazione. Abbiamo capito che si tratta di fiducia, di comunicare senza parole la volontà di fare qualcosa.
Diventa palese che questo politico che vuole-far-qualcosa è un politico che vuole combattere per qualcosa di negato e diventa antisistema quando chi vota ritiene che sia per colpa di qualcuno e non del destino. Si cambia il sistema quando esso non corrisponde alle mie richieste. Come tale non è carino e profumato (questo forse è il futuro), ma barbaro distruttore, l’impersonificazione della potenza del negativo. Da come sono fatti i “negatori”, capiamo qual è il tipo di persone che rappresentano “il sistema”.
Mentre Trump, Farage o Grillo non sono rassicuranti, non danno affidamento, non manifestano qualità particolari che li differenzi dal carattere del “cialtrone di successo”, che invece incarnano proprio per il loro disprezzo dell’etichetta, dall’altra parte ci sono persone d’esperienza o veri e propri esperti, i tecnici, che si propongono come affidatari di una responsabilità, la loro apparizione mediatica è perennemente improntata al rispetto dell’etichetta, con lo stesso effetto di falso che fa un animale di cristallo a un animale in carne e ossa.
Perché la plebe si schiera col fool anziché col condottiero?
Raffiniamo l’idea per cui sarebbe un difetto insito nell’operazione di scegliere: come scegliere un candidato se non lo si può valutare, cioè essere almeno al suo livello? Equivarrebbe a un plateau di probabilità tali da trasformarlo in un azzardo. Proprio per questo ci si avvale della logica binaria del sì o no, ossia non la scelta fra candidati, ma sui candidati: alternativamente, di elezione in elezione, quale votare e quale non votare rispetto al candidato idealtipico che la situazione suggerirebbe.
Il caso specifico di Clinton-Trump è il secondo: nessuno da votare (e questo anche perché le masse hanno strappato l’ultimo grado di indipendenza, quello dell’indipendenza dal loro rappresentante, scelto fra i simili anziché fra i pari, cosa che consente di non misurarsi con un candidato troppo superiore).
La raffinazione della strategia per cui si spiega tutto col voto basato sull’uguaglianza è un’interpretazione non canonica del frequente cruccio sull’agire sconsiderato delle masse: e se invece le masse compissero scelte scellerate (rispetto a che poi?) a partire da giusti principi?
Sappiamo che uno dei cardini delle elezioni, in America, è l’onestà: non dimentichiamo che Trump ha dovuto rispondere su tasse non pagate, l’ha fatto a modo suo, ma ha dovuto farlo. Possibile quindi che il votante medio, davvero, in cuor suo, l’avrebbe votato se pensasse che Trump è un lestofante?
La domanda non è da poco: gli americani votano dei patenti farabutti consapevolmente? O forse riconoscono a quella persona un connotato assolutamente incontestabile: quello dell’onestà, della trasparenza, come se vedere i difetti di qualcuno (quelli stessi di ogni uomo, che se non è razzista è vegano o cannibale o edonista o affiliato di festival culturali) rassicurasse sulla buona fede della persona.
Quella brava gente ha confermato Obama per due mandati, i democratici hanno anche bello caldo il tema delle violenze sulla comunità afroamericana, Trump è impresentabile ma vince. Domandiamo a questo punto, cosa ci hanno guadagnato quelle brave persone da aver avuto Obama due mandati: molto, è la risposta, ma non abbastanza, non quello che si aspettavano. Cosa si aspettavano? Forse Bernie Sanders. Il salto di qualità, sostanziale, fra una politica di commissione e una politica che può forse ancora precisarsi come bolla dell’immaginazione, il modo in cui un’idea diventa una pratica: una politica di nuovo attenta alla realtà dei cittadini anziché ai conflitti del mondo. Io non vivo “nel mondo”, vivo qui e ora. Così, fra Clinton, vale a dire il nulla, e Trump, vale a dire tutto, hanno preso il tutto: si sono fidati della trasparenza con cui mostra di pensarla come la pensa la loro parte più intima, quella ungulata della stabilità per garantire la prosperità.
Forse così è meglio, basterebbe capire come interagire con la situazione. Cosa vorranno mai dire queste masse?