La ricostruzione dell’Arco di Palmira per mezzo della stampante 3D avrebbe fatto felice Hegel.
Sappiamo cosa dice Benjamin sulla riproduzione fotografica, siamo pratici del concetto di feticismo delle merci e dei ricordi, e siamo passabilmente abituati a vivere fra oggetti prodotti in serie e ologrammi di varia natura, anche social, ma questa applicazione della stampa 3D ha tutte le caratteristiche dello scandalo.
In cosa consiste l’importanza di un monumento? Ovviamente per il fatto di essere unico. Cambiano le cose quando se ne possono avere diversi. Un monumento è poca cosa, alcuni chili di pietra o metallo, la sua caratteristica è di essere spuntato fuori dalla terra proprio come un albero o una montagna, indissolubilmente legato all’habitat, riservato sulla sua origine al modo della rosa di Silesius.
Ma se lo possiamo mandare in giro… come uno zombie?
Immaginiamo che sia possibile, per tutte le città che lo possono fare, dotarsi di un Colosseo… in fondo non è così grande. E ogni località balneare potrebbe avere il suo anfiteatro di Taormina.
Solo che il paradosso di una simile operazione, sarebbe esattamente avere in giro un numero indefinibile di copie di un monumento.
Ma a cosa servirebbe? A godere tutti di una certa forma, di un certo intarsio o gioco prospettico? È allora peregrino chiedersi se il luogo – o paesaggio, che viene tutelato insieme ai beni culturali – sia parte o meno del monumento? Il collegamento col luogo lo dota di senso. Certo, siamo in un’epoca in cui sia il contesto che le opere sono a rischio, per devastazioni edili o belliche, con una paradossale sovrapposizione fra costruzione e distruzione (pure un disastro si edifica).
Anche per il dissesto idrogeologico un monumento può perdere il suo paesaggio, e a noi tocca comunque conservarlo. Conservarlo, non duplicarlo né impedirne la rovina, perché anche in questo caso mantenere in vita equivarrebbe a un disastro, all’invasione degli zombie.
Nella storia dei monumenti è inscritta anche la loro distruzione, si perdono come i modi di dire, le parole, i dialetti, distruzione che va susseguendosi da sempre nei modi più impensati – gli antichi non esitavano a distruggere, hegelianamente, i monumenti presenti per crearne di nuovi, magari con pezzi di quanto sfatto, che così veniva recuperato nel progresso della storia. A differenza di quanto dice Zanardi, questo è il passato nel presente, non l’Arco redivivo.
Cosa succederebbe se invece vivessero per sempre, anche perduto il loro senso, nemmeno inghiottiti dal percorso dell’uomo? Si trasformerebbero in zombie, involucri senza volontà, solo con una ostinata resistenza, che una pervicace fame tiene nel mondo dei vivi.
Forse in questo c’è un po’ troppo “lasciate che i morti seppelliscano i morti”, ma lo accettiamo solo a condizione di intenderlo da un’angolatura sanamente anti-hegeliana.
Per Hegel è terribile che l’esistente consolidato sia messo in crisi da questo negativo entropico che sta annidato nell’ordine stesso e deve contemplare uno Zauberkraft (un “potere magico”) che tramuti l’antitesi in sintesi, cioè nuovamente in tesi.
L’entropia entra nelle società umane da una sola fonte: le nascite. Mentre il mondo razionale cerca di assestarsi, irrompono nella realtà da chissà dove dei nuovi esseri umani, che rappresentano il potenziale deviante di ogni ordine, perché ancora non ne fanno parte. Hegel li accetta felicemente, perché sono loro che perpetueranno il sistema, come materiali di reimpiego: li accetta solo concependoli come già morti, incalzati a loro volta da generazioni sempre nuove in un avvicendamento quasi immobile di generazioni che ripartono sempre da zero.
I monumenti, invece, sono i resti del passato, che resistono all’inserimento nell’ordine dell’esistente esattamente come i nascenti: come per un neonato, nemmeno da un monumento si può sapere niente di certo sul luogo da cui proviene, se n’è persa l’origine.
Sarebbe dunque la gioia di Hegel poter controllare almeno ciò che arriva nel presente dal passato, stabilire dove ricomparirà l’Arco di Palmira e per quanto tempo.
Siamo a un passo dalla tara eugenetica di Hegel, per cui se la stampa 3D consente di programmare i monumenti (cioè l’entropia che arriva dal passato), l’ingegneria genetica potrebbe consentire di programmare chi nasce (cioè l’entropia che arriva dal futuro), ma preferiamo fermarci prima, perché di scarso interesse.
È però interessante chiederci se ci serva conservare pronto e sempre a disposizione un monumento, tagliandolo fuori dall’unica cosa che contiene il suo potenziale zombie: essere lì, momentaneo resto, germe di entropia nell’ordine hegelizzante della disponibilità reduplicativa, ma non per questo insediato stabilmente, incluso nell’ordine. Casuale.
Anche la nostalgia per un monumento che si può solo rimpiangere è educativa. I monaci buddisti spazzano il mandala per non farsi sedurre dall’idea della permanenza, che non attiene al mondo umano, e per lo stesso motivo stracciano e insozzano i libri sacri, perché il sacro non è nell’oggetto.
Allora, forse, c’è una ragione se l’oggetto sociale con cui Zanardi identifica l’inutile Ministero ai Beni Culturali è il “nato morto”: i monumenti sono tutti discendenti di ciò che non è più, nascono al presente ovviamente già morti, ed è questo che devono continuare a fare anziché uscire dalle tombe – continuare a morire.