È stata una serata intensa quella di giovedì 17 marzo e tutto si è svolto in pochi minuti: Vespa coniava l’espressione “tragico talent”, contemporaneamente macabra e squallida, per indicare la ricerca fatta da Foffo e Prato per trovare una potenziale vittima, e dopo poco l’avvocato abilissimo di Foffo infilava nel mucchio una mossa da manuale di cui vale la pena di parlare.
Si era in pieno bignami sui tempi che corrono per trasecolati, quando l’avvocato ha calato l’asso: Foffo conduceva una “doppia vita”.
Qui, a prescindere dal caso concreto, si mostra il colpo di rovescio del giocatore audace e fortunato, che con questo semplice passaggio trasforma il problema della comunità (un tossico che ammazza la compagnia di una sera perché gli si è spiegazzato il cervello) in un problema (con tanto di spallucce incorporate) della collettività.
La doppia vita implica che ci fosse una “vita normale” e una “anormale”, quella di tutti e quella che può capitare a tutti. Benissimo, se non fosse che allora, per dirne una, e per ricalcare uno stereotipo, dovremmo ammettere conseguentemente che questa persona consumasse quantità di soldi e droga senza che un parente, un congiunto, un amico lo sapesse o se ne accorgesse. Significherebbe anche ammettere, se la vita era doppia, che lui consumasse gli stupefacenti in un clima da carbonaro, al riparo da occhi indiscreti, e non in situazioni socializzanti, amicali, rumecoca, mambojambo e aspirina. Non è un problema di chi gli stava intorno, ma un problema di tutti (spallucce).
Se invece la vita fosse una sola, se tutte le astuzie tipiche del tossico non fossero all’altezza di una normale solerzia, si dovrebbe ammettere che nessuno se ne sia interessato più di tanto, perché si stenta a credere che – con un simile consumo – qualcosa non si annusi proprio. Se non ammettiamo che avesse una doppia vita, se riteniamo difficile credere che si possa vivere in quel modo senza darne un segno, se pensiamo che qualcuno se ne sarebbe potuto accorgere e, di conseguenza, temiamo che sia stato solo ignorato (magari anche per un quieto vivere assodato e in buona fede che si accompagna all’avviamento all’indipendenza; tardivo, com’è di quest’epoca), allora è solo uno dei tanti che pippa, perché è, usando una retorica corrente, “divertimento a buon mercato e a caro prezzo” e perché quelli che aveva attorno glielo hanno lasciato fare: e noi come lo sappiamo? Perché ci sentiamo migliori e possiamo giudicarlo anche colpevole, ma di cosa? Stupidità? Insensibilità? Noncuranza? Nei momenti clou si usa “spregio”.
Si guadagna pochissimo in entrambi i casi: una rassicurante fesseria o un giudizio omissivo, senza colpevoli o quasi, senza luogo a procedere per patente conflitto d’interessi.
In tutta questa chiacchiera congestionante, nessuno di percepibile si è preso la briga di fare, o almeno di cogliere l’occasione per fare, qualche discorso serio sulle droghe, sul tabù dello “sballo” (giovanilismo di epoche remote) in questo paese che ha ragione ad aver paura di tutto, sul completo oblio della psichiatria umanistica, che tanto avrebbe da dire su cosa sia il soggetto e di come gli sia facile svuotarsi e di conseguenza prendersi tanto sul serio.
Bisogna ammettere onestamente che la tentazione di dotarsi di doppia vita è forte. Perché non dotarci tutti di “doppia vita”? Quella normale in cui siamo sani e abbiamo giudizio, in cui non ci si droga e ci si sdegna della facilità con cui la segretaria del broker gli compra un po’ di irrequietezza, come quella che altrimenti ti mette su una macchina in giro per Roma per ore in cerca – se non di uno da uccidere – di qualcuno da menare, da abbordare, da ignorare o da pagare per un kebab. E quella anormale, in cui non ci sembra così importante spiegarci sulla droga, nemmeno però eliminarla: doping quotidiano senza del quale non ce la si fa, come il caffè o la nicotina o l’alcol (che, beh, sì, dà ancora dipendenza: vedi alla voci “Soft drink”, “Minorenni”, “Donne”, “Packaging”, “Sottovalutazione”). È la doppia vita di chi vede e più di tanto non si scandalizza – “è il segno dei tempi, la perdita dei valori, vedi cosa c’è sul due…” – o di chi, confidando sinceramente, crede sia una fase del pupo che alla sua età non sa che certi Stati hanno legalizzato certe sostanze e altre assolutamente no perché c’è un motivo: certe sostanze non conviene continuare a proibirle più di quanto non convenga regolare la loro diffusione, non fanno “così” tanto male né al singolo né al suo prossimo. Altre, invece, fanno proprio male.
Se solo lo volessimo, potremmo entrare tutti insieme nel luogo comune della doppia vita. È facile, rilassante, appagante: dà anche un tocco di mistero. Chiudere gli occhi, lasciarsi andare. Convincersi che sia un problema collettivo, che anche le persone più vicine potrebbero avere una doppia vita, e salvarci l’innocenza: non lo potevo sapere, come quello là in tv. E fin d’ora possiamo decidere che i ragazzi che verranno in futuro avranno già una doppia vita bell’e pronta, perché solo così, solo dicendoci che era inimmaginabile, potremo credere di non essere stati troppo indulgenti e ne saremo consolati: non ce ne siamo fregati, no, noi siamo solo stati troppo buoni.
Sarebbe meraviglioso approfittarne, se solo non ci fosse una consapevolezza assidua e angosciosa di non saperne davvero nulla di droga, di ricerca d’incoscienza, di perdita di senso, di radicale schermatura dall’altro. È terribile scoprirsi impotenti ad aiutare qualcuno e che ci sono precisi motivi per cui è così, anche in questo caso servirebbe una droga per alleviare l’ansia: magari la glissina, con cui chi ignora cose che sa può beatamente continuare a farlo. E se facessimo proprio le cose per bene, potremmo anche allegare d’ufficio l’infermità mentale, così ci tornano a casa per il Cenone. E tutto sarebbe sistemato, perdonato, rimesso: il dolore privato, le poche ma significative frustrazioni, la narrazione collettiva, tutto.
Se, invece, diciamo che è un problema comunitario – perché d’accordo il problema generale e posso non sapere se qualcuno dei miei prossimi si fa le canne, ma so che nessuno surfa su autostrade di coca, visto che altrimenti la loro giornata ruoterebbe attorno all’assunzione massiccia di una sostanza – allora dobbiamo ammettere che ci sono comunità più sane e meno sane. Raccapricciante e contemporaneamente imprevedibile: qualunque comunità sana, se confondesse lasciar correre con lasciar perdere, rischierebbe di ammalarsi. Non è una questione di quelle facili, risolvibile con qualche etichetta, perché all’atto pratico pochi padri sanno cosa dire al figlio in questi casi e per molti è facile sbagliare o bloccarsi: “Scusa, bello di babbo, per caso sniffi?”. Deprecabile.
E quindi? Quindi, è tutto un problema di gradi di connivenza, dal lecito silenzio alla complicità passiva.
Nel corso della puntata non c’è stato modo di rilevare che per certi discorsi occorre un’atroce umiltà.