La privacy secondo Apple
Il fatto recentemente accaduto ad Apple è, in sé, piuttosto semplice. Il punto non è la privacy in quanto tale (come quella del terrorista defunto cui apparteneva l’Iphone), bensì il valore supremo dell’identità quale luogo d’incontro fra individualità e comunità, anche virtuale.
Il fatto, in due parole, è: Apple si rifiuta di fornire all’FBI (insospettabilmente a digiuno di competenze tecnologiche), dopo l’ordine di un giudice, “assistenza tecnica” per riuscire ad aggirare il sistema di sicurezza di un Iphone di ultimo modello.
La motivazione – con cui è solidale l’AD di Google – è che non si può creare il precedente per cui un colosso dei Big Data è costretto a mettere deliberatamente a rischio uno degli accessi al suo sistema (in questo caso il sistema di sicurezza del sistema operativo dei suoi smartphone).
Fin qui, appunto, nulla di complicato. Senonché c’è stata una vera e propria spaccatura nell’opinione pubblica, come se Tim Cook si fosse sollevato non in difesa della propria reputazione di produttore di tecnologia per le masse di alto profilo bensì di un diritto più generale che la legge stessa ignora: un diritto più forte dell’esigenza dell’autorità di avere informazioni dal cellulare di un morto che è stato responsabile di un attentato terroristico con una quindicina di vittime.
Perché, ricordiamolo, il punto qui non è solo evitare che il sistema di sicurezza del cellulare incriminato cancelli il suo contenuto al fallimento del decimo tentativo di inserimento del codice di sblocco, ma è anche e soprattutto la sicurezza della collettività, che ha tutto l’interesse a scoprire se in quell’Iphone ci sono informazioni utili per sventare altri attacchi.
Ma la collettività deve avere anche un’altra sicurezza: che il posto in cui ripone i propri sms, scatti fotografici, numeri di telefono, conversazioni e altro sia assolutamente sicuro.
L’FBI non ha solo chiesto le misure, il colore e il modello del maglione del terrorista, ma ha chiesto di ricevere da Apple “assistenza tecnica” per trovare il filo da tirare per disfarlo. Il che significa averlo trovato per tutti gli altri maglioni: ogni Iphone venduto da Apple sarebbe potenzialmente vulnerabile, inclusi quelli di parlamentari, ministri, agenti di borsa, finanzieri, militari, e i loro congiunti, il loro personale, le loro colf, i loro vicini e così via. Certo, il danno può essere sovradimensionato, ma di quanto, visto che è incalcolabile?
Il sistema di protezione che – se fosse stato installato dal proprietario defunto – potrebbe cancellare tutti i dati dell’Iphone funziona con l’impronta digitale: si sblocca quando il proprietario vi sfrega sopra il dito. Il fatto che sia la presenza corporea, la prosecuzione biologica di quell’identità virtuale – dotata di diritti, biografia, agenda, aspetto e connessioni – che vive per mezzo del cellulare, a giocare un ruolo così determinante in questo caso di sicurezze è emblematico: denota un rapporto di vera prossimità. Un confine sottilissimo fra uomo e macchina, praticamente un bacio, ma di quelli detti “beatificanti”, con cui pare che Dio ricompensasse le anime mistiche più meritevoli chiamandole nella sua pace.
Infatti, qui si porta a perfezione anche la funzione mediatrice svolta dai colossi tecnologici nelle nostre società: da un lato essa protegge lo status quo profilando gli utenti, rendendosi disponibile a labilità morali di vario ordine d’intesa con le autorità (il caso eclatante dei rapporti di Apple come di Google col regime cinese, per esempio), dall’altro redarguisce da un altrove quasi divino gli abusi di chi – per gestire il potere mondano – pecca di hybris.
La psicologia del personaggio non è secondaria: Tim Cook passa inosservato solo perché Steve Jobs era inimitabile, ma è tutt’altro che da sottovalutare, trattandosi di un top manager di un livello stratosferico a capo di un’azienda dal fatturato di un piccolo stato fecondo, ma che dichiara di voler poi disfarsi del suo intero patrimonio dandolo in beneficenza. Un uomo simile guida un’azienda, la Apple, fondata sulla sostanziale intesa fra individualità e uguaglianza, fra singolarità e comunità, fra l’istinto a badare al proprio oikonomico e la vocazione a farsi animale politico: essere acquirenti e divenire cittadini del mondo Apple, sognato da Steve Jobs quando volle rendere simpatici e gradevoli oggetti di lavoro, facendone amici inseparabili dell’uomo, come garbatissime protesi. Ma si dovrebbe essere degli ingrati per volergliene. E dei ciechi per non vedere come Tim Cook, col suo diniego, trascenda completamente il ruolo dell’industriale, del magnate, del plutocrate – come aveva fatto il suo predecessore – per entrare di diritto in quello del grande leader popolare, veicolo di sacrosanti diritti di fruizione, privacy e storaggio.
Come un Donald Trump sublimato in asceta, Cook afferma per conto di tutti i suoi utenti che ci sono dei diritti connessi al grande diritto inespresso di profilarsi, profilare e farsi profilare: uno dei quali è il diritto alla privacy, che è appunto il diritto di non farsi profilare incondizionatamente né da chiunque, non a essere anonimo. E tale diritto non si limita alla mera esistenza in vita dell’acquirente biologico del device, resta bensì valido per la sua superstite vita virtuale.
L’inviolabilità di questa vita virtuale è particolarmente sentita da tutti perché è l’inviolabilità stessa di quell’oasi che chiamiamo privato.
Privacy significa sapere di poter coltivare la propria identità all’interno di un solo sistema politico-sociale attualmente conosciuto: la liberal-democrazia occidentale. Mito o realtà che sia, approssimata più o meno al suo ideale, essa resiste sulla convinzione non detta che se non lederò non sarò leso e se sarò leso verrò difeso. Per questa privacy, per questa inviolabilità e inalienabilità di certi spazi impermeabili a ogni giudizio garantitici di diritto dal sistema in assenza di ben precisi elementi, gli occidentali pagano tasse che – secondo il loro genius loci – sono esorbitanti e ingiuste per definizione a prescindere da quanto basse o ben investite siano: il lamento verso le tasse, come verso l’Europa o la BCE, è solo scena per poi affermare di fatto la sopravvivenza del sistema stesso. In scena è permesso anche chiamarlo stato di polizia – per la centralità del bisogno di ordine e sicurezza, spesso tradotto in intelligence – ma sempre ricordando che le forze dell’ordine hanno il ruolo chiave di garantire anche la sicurezza della privacy individuale, che da soli non sapremmo difendere se non congedandoci dal consesso civile.
La questione sollevata da Cook, dunque, non ha solo un valore economico, ma sociale, ed è particolarmente curioso che provenga da un’azienda come la Apple.
A questo punto dovremmo porci almeno una domanda: quanto valgono veramente i nostri dati e per quanto ancora decideremo di cederli gratuitamente in cambio di certi servizi messi a disposizione da corporation? Non solo diamo dati “incrociabili” (cioè leggibili e raffinabili perché accompagnati da altri dati), ma anche aggiornati: un dato incrociato, cioè verificato, e aggiornato è un dato preziosissimo.
“Tutti gli esseri umani hanno almeno tre vite: una pubblica, una privata e una segreta” scrisse Garçia Marquez. La nostra vita pubblica è stata molto limitata, quella privata è confusa e tutt’altro che aiutata dalla collettività a strutturarsi, quella segreta la regaliamo per avere uno spazio virtuale dove esprimere la nostra intimità previo acquisto di device e servizi e sottoscrizione delle relative condizioni d’uso.
Alla luce di questo, è ancora una resistenza così semplicemente fuori luogo quella di Tim Cook a dare “assistenza tecnica” all’FBI in questo caso?