L’(ultima) ora del dilettante
Lo sai perché la terra è una sfera?
Angelo Di Summa, “Le storie di Attar”
Perché il punto più lontano che nel tuo viaggio
potrai mai raggiungere è lo stesso punto
da cui sei partito
come se mai tu fossi partito.
Ma quello è anche il punto da dove partire
ancora.
Notre tête est ronde
pour permettre à la pensée
de changer de direction.
Francis Picabia, “La Pomme de pins”
Mettendo sui due piatti della bilancia i due problemi che in questo momento minacciano il microcosmo Italia e il macrocosmo Europa si scopre che fra loro c’è una certa continuità.
Il problema italiano è la burocrazia e quello europeo l’immigrazione da Africa e Medio Oriente.
Solo qualche mese fa, Alberto Baban di Confindustria (per la precisione di Piccola Industria) ha dichiarato che fra corruzione e ritardi – entrambi epifenomeni dell’iperburocratizzazione – l’Italia brucia qualcosa come un terzo del suo Pil. Non è casuale che Baban, nell’elenco, metta anche la “ridotta mobilità”, che crea in certi punti disoccupazione e in altri posti vacanti. Lo abbiamo visto in questo periodo con gli insegnanti.
La migrazione ha costretto ad andamenti zigzaganti persino la Germania, solitamente lineare come una spada nel suo incedere. Ma dovremmo riflettere anche sul fatto che una simile massa di individui che arriva e non si può respingere all’infinito rischia di far saltare la nostra idea di politica colpendola al suo cuore sociale: come può Angela Merkel o chi per lei promettere qualcosa al proprio elettorato senza che, nell’arco di qualche mese, i fatti la costringano a fare altro?
E non parliamo di fatti puntuali nel tempo come l’attentato alle Torri Gemelle, bensì di un problema strutturale che si risolverà (come stimato dal generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore dell’esercito statunitense) in almeno vent’anni.
È chiaro che anche la burocrazia ha il potere di far fallire la rappresentatività della politica: il politico non può promettere posti di lavoro, perché all’atto pratico non ha potere vero sulla macchina burocratica, che nella sua farraginosità serve al politico stesso (e compagnia) come sponda ai propri interessi particolari?
Burocrazia e immigrazione, l’una sul fronte interno e l’altra su quello esterno, sono le estrinsecazioni pratiche di un movimento storico cominciato anni fa con la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica di internet.
Sappiamo almeno da venti o trent’anni che l’abbattimento delle frontiere, la facilitazione degli spostamenti e dei pagamenti, la virtualizzazione delle relazioni e altri fenomeni a corollario avrebbero minato la capacità della politica di fungere da intermediazione fra i cittadini e le istituzioni. Se tutto si orizzontalizza, le scale non servono più, è evidente. Ma a questo non si sapeva concretamente come ci si sarebbe arrivati. Ora, invece, lo vediamo: la politica è impotente a veicolare le forze che le imprimono i cittadini, non riesce più a tradurle in azione concreta.
Questa debolezza è stata la causa iniziale della burocratizzazione, dell’ipertrofia normativa e della proliferazione di uffici e sprechi, ma poi il suo peggioramento è stata una conseguenza di queste cose.
Come se non bastasse, anche a seguito di una certa routine guerrafondaia instauratasi dal crollo del Muro di Berlino in tutta quella fascia di stati-cuscinetto che l’Europa ha a proteggerla dai paesi più mediorientali e africani, le barriere che c’erano fra noi e i paesi afflitti da guerra e fame si sono incrinate e assottigliate.
Abbiamo lasciato soli i musulmani più vicini alla cultura europea (nord-africa francofono e minoranze balcaniche) a sbrogliarsela da soli con pulizie etniche e suppurazioni integraliste, questo oggi lo paghiamo con l’instabilità nel giardino accanto al nostro. I nostri vicini meridionali vengono a cercare rifugio da noi, ma noi non sappiamo se abbiamo abbastanza lenzuola.
Il dilettantismo con cui affrontiamo la questione è motivato dall’imprevedibilità dell’evento. Pensiamo di poterlo burocratizzare e di poter decidere di spartire fra i paesi dell’Unione gli immigrati, come se fosse possibile tenere alcune migliaia di persone che hanno rischiato la vita e affrontato un esodo per andare a lavorare in Germania da qualche parte in Lituania. E questo al di là della discussione utile ma inconcludente sulla distinzione fra migranti per fame e migranti per guerra. Perché, anche appurato che la Costituzione italiana prevede solo il diritto d’asilo per profughi di paesi dove sono negate le libertà fondamentali o c’è la guerra, questo non fermerà i migranti per fame (da zone di solito inquinate o desertificate) e non ci renderà più capaci di respingerli.
Ma veramente possiamo respingerli? Non solo non ne abbiamo le forze, ma non avendole è il caso che qualcuno ci aiuti: il nostro decremento demografico (che non solo renderà indispensabili periodici spostamenti degli insegnanti, ma li decimerà) è rimediabile solo introducendo nuova forza lavoro. Quindi, se non per umanità, almeno dovremmo accoglierli per bisogno, il nostro.
È possibile gestire questo fenomeno migratorio? Forse sì, ma non con la burocrazia europea, che è inadeguata a farlo, bensì con la politica, che al momento è troppo debole per farlo. Forse, se lo lasciassimo gestire ai migranti il problema si risolverebbe: l’uomo da sempre si è spostato e lo ha fatto senza troppo scandalo, studi come quelli di Cavalli-Sforza dimostrano che geni, popoli e lingue si sono spostati insieme secondo le fisiologiche migrazioni dell’umanità. Ma naturalmente questa proposta suona solo provocatoria, non siamo realmente pronti a sperimentarla.
Sarebbe utile per inquadrare meglio questa correlazione fra burocrazia e migrazione mettere nel conto anche il fatto che le fonti d’energia fossile vanno esaurendosi (pare, per eccezionale coincidenza, fra una ventina d’anni) e che l’acqua è divenuta il “petrolio blu” per la progressiva desertificazione di vasti territori qui e là nel mondo.
Quindi, diciamolo giusto perché non si dica che non era evidente, avremo anche a che fare con “migranti per sete”, e qui la distinzione fra migranti diventerà utile come il proverbiale dito nella diga, con l’aggravante che la diga è a secco.
Con questi due elementi in più si nota meglio che migrazione e burocrazia hanno l’aggravante di diventare esplosive quando vengono associate, perché la migrazione con cui avremo a che fare rischia di diventare inimmaginabile e la burocrazia non sa come fermarla.
Le proposte – anche strane – non mancano, come quella di mettere i migranti a restaurare i paesini italiani diroccati, così da unire l’utile al dilettevole, l’alloggio al recupero; il problema è che ogni proposta sembra essere troppo carente sotto il profilo dei principi costituzionali, che giustamente proietta sull’azione istituzionale l’ombra di un’idea di umanità che non siamo in grado di sobbarcarci.
A quanto pare consiste in questo il principale limite di un paese annichilito dalla burocrazia: non è in grado di eseguire uno slancio sufficiente a coprire la distanza con ciò che dovrebbe essere. Non c’è bisogno di fare esempi, perché li conosciamo bene, anche nel quotidiano. La democrazia è possibile se te la puoi permettere, come gli alti valori costituzionali. Siccome non siamo nelle condizioni di permettercela, al momento, la soluzione è chiara: nicchiare.
Si nicchierà sul problema qualche altro anno, con grande aiuto dalla macchina burocratica, sparpagliando qua e là immigrati, creando un mercato sempre più drogato da questo afflusso di manodopera a costo ragionevole, sempre più fragile ai confini caldi, in un mondo sempre più in movimento per i cambiamenti climatici e sociali; poi, finalmente, il problema si manifesterà, ma probabilmente lo risolveremo senza troppi incagli, perché nel frattempo le cose potrebbero essere cambiate e il problema sarà reso desueto dal progresso. Di solito l’umanità se l’è cavata così, oppure con guerre. Si vedrà, dipenderà dal senso che avremo dato alla parola “migrazione” e, di converso, alla parola “accoglienza”. Perché è solo una svista dei nostri tempi confonderla con l’ospitalità.
Il meccanismo ben noto dell’ospitalità era tarato su un preciso modo di svolgersi della migrazione: gruppi più piccoli si spostavano più lentamente su tragitti meno lunghi.
Oggi vediamo intere masse che percorrono a piedi o con mezzi di fortuna tremila chilometri (questa è la distanza approssimativa fra Palmira e Berlino) in un mese circa.
Se la preoccupazione di Catone era la vicinanza di Cartagine, da cui arrivavano frutti freschi in giornata, è pur vero che si trattava di una preoccupazione di carattere militare. Oggi la minaccia non è militare né direttamente né strettamente bensì amministrativa, politica, demografica, economica.
Gli immigrati arrivano da più lontano e senza intenti bellicosi, ma arrivano prima e in massa. È il loro numero che ci preoccupa, la loro consistenza. Il problema, dunque, si è sviluppato in termini di smaltimento e dispersione di queste masse e di tempo per farlo prima che ne arrivino altre. Tempo e consistenza. In altra sede abbiamo proposto di adottare una “prospettiva geologica” quando pensiamo a questa migrazione: lo ribadiamo, notando che il tempo in cui si disgrega una certa consistenza è un problema tipicamente geologico.
Queste mutate condizioni hanno sancito un uso incautamente parallelo delle parole “ospitalità” e “accoglienza”, come se risalissero a un unico concetto, con un evidente equivoco che gioca a favore della condotta ambigua con cui gli europei discorsivizzano l’attuale caso migratorio.
Essi, infatti, da una parte manifestano una forma autoconservativa di egoismo mirante a tutelare i benefici esistenti, dall’altra si esprimono come se si sentissero in colpa non aiutando delle persone che percepiscono come svantaggiate o danneggiate dagli interessi occidentali (e non solo).
Due casi mediatici citabili emblematicamente sono Angela Merkel e papa Francesco. Abbiamo visto contemporaneamente la prima ribadire davanti a una scolara in lacrime “non possiamo far entrare tutti” e il secondo pubblicare l’enciclica Laudato si’ dove si rilancia l’idea che le desertificazioni dovute ai cambiamenti climatici principalmente imputabili all’inquinamento, i danni agli ecosistemi africani per lo sfruttamento senza controllo delle loro risorse portato avanti dalle multinazionali occidentali e cinesi, le guerre sovente identificate come guerre economiche non dichiarate concorrono a causare le migrazioni che respingiamo (leggi: ne siamo in parte responsabili).
Questi due casi mediatici rispecchiano rispettivamente due opposti approcci a ciò che chiamiamo immigrazione.
Il primo approccio predilige la linea del “non possiamo far entrare tutti” (che qui non è più la frase di qualcuno, ma il refrain con cui si aggira la questione e si crea un rimosso) e periodicamente innesca polemiche sui crimini che derivano dagli immigrati in cui recita il suo secondo refrain “non se ne può più”.
Il secondo approccio (del quale l’enciclica è solo una variante meglio editata) è da molto tempo radicato in chi è solidale con gli immigrati, ma si tratta di una solidarietà scissa: da un lato quella consapevole e dall’altro quella semplificatoria (dovuta forse all’istinto di aiutare chi scappa dalla guerra spesso immaginata come una specie di catastrofe naturale su cui è quasi impossibile intervenire e di cui è troppo difficile cogliere le cause) che usa spesso la parola “integrazione”.
Infatti, il dibattito pubblico sul tema si riduce al distico “non possiamo far entrare tutti”/“dobbiamo integrarli”. Questo teatro permette ai due approcci di effettuare le proprie rimozioni.
Il primo approccio ne approfitta per celare dietro ragioni di stabilità economica, sociale e politica il monito a tenere sempre ben presenti le “ragioni di sicurezza” (sanitaria e anti-terroristica) nei confronti di chi arriva, ma rimuove del tutto che l’“integriamoli” del suo avversario significa contemporaneamente “integriamoci”: il rimosso è infatti il dover accettare il fatto che chi arriva ci darà qualcosa e ci toglierà qualcosa inevitabilmente, è il rimosso sotto il messaggio implicito del discorso pubblico.
Il secondo approccio sa e accetta, forse addirittura vuole, questo dare e togliere, ma approfitta del teatro col suo avversario per ribadire che non c’è da aver paura dell’integrazione, dimenticando di aggiungere che ladri, prostitute, assassini possono essere anche profughi. Niente impedisce a un profugo di essere anche criminale e ciò deve convivere col fatto che – in quanto progrediti democratici occidentali – è per noi “giusto” aiutarli, anche se non vorremmo.
La messinscena di questi due approcci basati su un equivoco fra “ospitalità” e “accoglienza” sfocia in una rimozione condivisa che media fra “non possiamo far entrare tutti” e “integriamoli” e partorisce “aiutiamoli a casa loro”: questo terzo refrain aggira e rimuove l’evidenza che “loro” non hanno nessuna casa e perciò la consapevolezza che gli arrivi non si fermeranno e che i rimossi riemergeranno nel reale.
In questo panorama, sovrapporre ospitalità e accoglienza serve a lasciare il discorso in un’utile confusione dove è consentita l’ambiguità di giudizio e di comportamento.
L’ospite e l’accolto sono oggetti diversi da giudicare, non sono la stessa persona; così come l’attuale concetto e fenomeno del “confine” non è lo stesso concetto e fenomeno del passato: è anch’esso un prodotto storicamente determinato, una variabile dipendente dello scorrere degli avvenimenti, e come tale andrebbe oggi riconsiderato.
Sappiamo che un confine delimita uno stato abitato da un popolo che si è formato per l’istinto da branco a contarsi e identificarsi e deriva da una necessità economica (dosare la composizione e il numero dei consociati) e difensiva (contare i consociati serve a sapere quanti possono combattere). Oggi le frontiere sono più aperte e la naja è in disuso, ma sono subentrati nuovi elementi che rendono ancora necessarie pratiche frontaliere che forse avremmo sorpassato un po’ o che non avremmo affatto inventato: le grandi migrazioni in corso riabilitano il confine, la minaccia islamica riabilita la funzione difensiva del confine e l’instabilità politica di troppi paesi europei fiaccati dalla crisi economica riabilita la funzione economica che fa aprire le frontiere alla forza lavoro e le fa chiudere per tutti gli altri.
Ma questo è un evento inedito per la dieta di migrazioni e spostamenti che l’umanità segue da sempre. La sprovvedutezza con cui si prendono misure di sicurezza e si progettano rozzi modelli di smaltimento dei migranti lascia spazio per ipotizzare che la bizzarra idea di frenare il fenomeno ancestrale della fuga per continuare a vivere stia prendendo piede.
Lo fanno ipotizzare anche certe posizioni, come quella di Cameron che voleva prendere i siriani dalla Siria, che equivale a dire “cercate di non morire mentre arrivo”. È la classica scena del noir in cui il protagonista, rimasto chiuso in casa con l’assassino, chiama la polizia e non riesce a chiedere aiuto perché viene messo in attesa. Naturalmente, quando vengono espresse queste posizioni, è la vaghezza a comandare: nessun modo di sapere precisamente come si pensa di fare.
È in questo equilibrismo, in questa pacata vaghezza, che i programmi di contenimento della migrazione trovano il loro punto debole: pretendono illusoriamente di scadenzare l’istinto di sopravvivenza.
Certo il fenomeno va gestito, ma sono i tempi e i modi usati che rendono inutile provarci: siamo quasi nel racconto di Guareschi in cui non ci si mette d’accordo sugli argini perché costruirli elimina troppi filari di vite e, mentre si litiga sul modo, il tempo passa e l’inondazione arriva e porta via gli argini e i filari.
È sui modi e sui tempi che si giocano l’adattamento e la sopravvivenza che ne deriva. Sarebbe molto miope commettere l’errore di pensare che tutto sia gestibile secondo i ritmi che riteniamo giusti, perché sta diventando piuttosto evidente che servono ritmi diversi da quelli a cui siamo abituati.
Siamo abituati ai tempi e ai modi dell’ospitalità, ma non per questa abitudine sono aboliti i tempi e i modi dell’accoglienza. La prima serve a stringere nuovi o preesistenti rapporti o alleanze, a sdebitarsi, a stabilizzare gli impervi spostamenti dell’antichità e proprio in ciò sta la differenza con l’accoglienza: l’ospitalità ha regole precise, stabilisce un certo tipo di rapporti, è una pratica programmabile in cui sono previste fattispecie e sanzioni (spesso divine). Questa funzione stabilizzante e regolatrice, che aiuta scambi e relazioni, è assente nell’accoglienza, che è sprovvista di un codice che sancisca un requisito fondamentale dell’ospitalità: la reciprocità.
L’ospitato s’impegna a contraccambiare l’ospitalità ricevuta, ma come si può pretenderlo anche dall’accolto? Lo si può sperare, ma nulla autorizza a pretenderlo.
Malgrado ciò (o forse proprio per questo) l’accolto tende a entrare stabilmente nella vita di chi lo accoglie, a differenza di ospite e ospitante. Fondamentalmente non è vincolato a ricambiare perché non se ne vuole andare o non sa dove andare e finirà col non andarsene (in ciò sta la ricchezza dell’accoglienza per chi la esercita e per chi la gode, ma anche il rimosso dell’“integriamoli”).
L’ultima osservazione generale che ci sembra utile fare riguarda l’etimo di queste due parole, che traccia ancor più chiaramente le sembianze della differenza che le distingue.
“Accogliere” viene da colligere e significa “raccogliere”, ossia “prendere presso di sé, assumersi” e – come nell’uso italiano – “accettare”, tendenzialmente con un senso emotivo. Per esempio, anche “cogliere”, che compone “accogliere”, deriva da colligere, che deriva da cum-legere, ossia “cogliere, raccogliere con” un qualcosa che assume il ruolo dello strumento (perché cum ha nella costruzione valore strumentale): leggere con, discorrere con, conoscere/conoscersi con. Con chi? Con un altro, che diviene così “strumento” del nostro leggere, discorrere, conoscere noi stessi, il mondo e il senso del concetto di relazione. È il caso di non lasciare spazio a fraintendimenti: ospite e ospitante hanno un legame stretto quanto quello di accolto e accogliente, come denuncia l’uso ambivalente di “ospite”, ma di genere diverso, perché l’accoglienza ha un contenuto interno sconosciuto all’ospitalità.
Chi accoglie bada al benessere dell’accolto, ma ponendolo anche su un piano più propriamente umano. Questa parola, abusata al punto da risultare di vuotezza irritante, ha al contrario un senso precisissimo: il benessere umano dell’accolto consiste nella sua felicità. Non una felicità aleatoria, come quella filosofica o quella della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, bensì una felicità concreta con un criterio specifico di valutazione: la solitudine. Chi accoglie non vuole che l’altro resti solo, perché chi è solo è vulnerabile e soprattutto infelice. Fa parte della nostra evoluzione e della nostra cultura, a prescindere che condizioni e scelte di vita non assecondino un personale bisogno di romitaggio. Il contenuto empatico – e come tale indeterminabile e non programmabile – dell’accoglienza travalica il concetto stesso di legge, insito nella “legge dell’ospitalità”.
“Ospitalità”, infatti, ha un’origine molto più ramificata e particolare, come testimonia anche l’Accademia della Crusca:
«La parola ospite deriva dal latino hospes, –ĭtis, che aveva già il doppio significato di ‘colui che ospita e quindi albergatore’ e di ‘colui che è ospitato e quindi forestiero’, significato – comune alla parola greca xénos – che si è tramandato in quasi tutte le lingue romanze […]. L’etimologico di Nocentini approfondisce invece la questione e rimanda all’indoeuropeo *ghos(ti)-potis ‘signore dello straniero’ cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da *ghostis ‘straniero’ e *potis ‘signore’. A favore di tale ipotesi cita i corrispettivi gospodĭ ‘padrone, signore’ in antico slavo e gospodín ‘signore’ in russo. […] Hospes in origine è dunque il “padrone di casa” che dà ospitalità al forestiero; i rapporti che si instauravano tra chi accoglieva e chi era accolto erano così stretti – legati anche al fatto che chi era ospitato si impegnava a sua volta a ricambiare l’ospitalità – che, sin dai tempi più antichi, hospes ha indicato anche la persona accolta in casa d’altri. La reciprocità del patto di ospitalità è dunque all’origine del doppio significato della parola ospite. […] Vale la pena soffermarsi un po’ di più sulla parola hostis che, insieme a potis ‘signore’, è all’origine di hospes. […] Benveniste ricorda, infatti, che hostis è usato nella Legge delle XII tavole con il valore arcaico di ‘straniero’, ma riporta anche un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano). A conferma di ciò Festo ricorda anche che il verbo hostire aveva lo stesso significato di aequare […]. Il legame di hostis con i concetti di uguaglianza e di reciprocità è confermato anche da una parola più conosciuta, hostia, che nel rituale romano indica propriamente ‘la vittima che serve a compensare l’ira degli dei’ (l’offerta è considerata quindi di un valore tale da bilanciare l’offesa), in contrapposizione con il termine meno specifico victima che indica un semplice ‘animale offerto in sacrificio’ (cioè senza nessun intento riparatorio). Si ricava dunque che il significato originario di hostis non era quello di ‘straniero’ in generale, né tanto meno di ‘nemico’, ma quello di ‘straniero a cui si riconoscono dei diritti uguali a quelli dei cittadini romani’, a differenza del peregrinus che indica invece ‘colui che abita al di fuori del territorio’. Il legame di uguaglianza e reciprocità che si stabilisce tra un hostis e un cittadino di Roma conduce alla nozione di ospitalità. In un dato momento dunque hostis ha indicato ‘colui che è in relazione di compenso’ e di scambio nei confronti del civis e quindi, in ultima analisi, l’ospite. Di questo erano ben consapevoli gli scrittori classici, come scrive Cicerone nel De officiis: “hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus” [infatti i nostri antenati chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus (‘forestiero’)]. Più tardi, quando alle relazioni di scambio tra clan e clan sono subentrate le relazioni di inclusione o di esclusione dalla civitas, hostis ha assunto un’accezione negativa e ha preso il significato classico di ‘nemico’ (da cui deriva, per esempio, la parola italiana ostile), e in tal senso la storia di hostis riassume il cambiamento che le istituzioni romane hanno attraversato nei secoli. In conseguenza del vuoto semantico lasciato da hostis si è dovuto pertanto ricorrere a un nuovo termine per indicare la nozione di ospitalità e si è creato, come già detto, partendo dalla stessa parola hostis, il termine hospes. Hospes dunque eredita e conserva in sé il valore intrinseco di reciprocità e di mutuo scambio: è forse anche per questo che la stessa parola nelle lingue derivate dal latino ha facilmente continuato a indicare sia chi ospita sia chi è ospitato».
Accademia della Crusca, Ospitalità
Non è un caso che la parola “ospite” abbia tanto viaggiato, a differenza di “accolto” (che tende a installarsi dove è accolto).
“Ospite” ha dunque anche accezioni “negative” (confluite in ostile e ostia, da nemico e da capro espiatorio, come direbbe Girard) oltre a quelle “positive” (reciprocità e uguaglianza). Con ciò si nota fra ospitato e ospitante il legame stretto che li unisce, ma non al modo dell’accoglienza. Hospes, con le sue ascendenze e discendenze, mostra patentemente come in ogni evoluzione si acquisti qualcosa necessariamente e si perda necessariamente qualcosa. Richiama alla mente il gioco di parole fra il tedesco So Ist Es (“Così è”) e l’italiano Es-ist-(s)o, che esprime questa bilateralità fra la permanenza di un certo ordine basato su certe leggi e l’irresistibile svilupparsi dell’esistente.
Su questo secondo fronte, cioè quello dell’esistente che diviene continuamente se stesso e altro da sé, troviamo l’accoglienza, che non proietta leggi e non ha statuto, ma unicamente il motore empatico che è istintivo nella umanità come specie.
Se, dunque, l’ospitalità è connessa col sistema dello scambio economico (da non confondere con lo scambio commerciale, mercantile, capitalistico ecc.) che mette sullo stesso piano le due parti in un rapporto di reciprocità, l’accoglienza si pone nell’ambito – per usare un’espressione che si determina automaticamente in opposizione – del dono.
Nell’accoglienza non c’è “padrone” né “ostia” né “ospite”. C’è un qualcuno con cui leggere, parlare, capire, stare e qualcuno che lo raccoglie. Il loro rapporto, come quello fra ospite e ospitante, è improntato all’equità, ma quest’ultima diventa uguaglianza (derivante da æquus) nell’ospitalità e parità nell’accoglienza: l’uguaglianza è stabilita da una proporzione (pro-portionem: “secondo porzione”. Porzione, da partio, significa “parte”: dalla radice par-/por-, “apprestare, compiere”, che vuol dire che la parte è ciò che compie l’intero, secondo proporzione), la parità da un rapporto (ossia da un “portare a qualcosa”, un “riferire”). La prima si richiama a un intero, a un sistema, e la seconda a un referente, a un umano. Per questo non c’è obbligo o necessità di contraccambiare, ma al limite speranza, ciò la rende così diversa dalla Xenia, dove sussiste un’aspettativa. L’accoglienza è uno slancio istintivo, non una legge programmata. Anche per questo non può chiedere reciprocità.
Non sembra semplice dire in cosa consista perché è troppo semplice.
In quanto moto interiore è incalcolabile, soggettivo, ma anche asimmetrico perché non c’è il padrone di casa che dà seguito al cerimoniale, ma un soggetto che ne raccoglie un altro per slancio interno, personale.
Non poggia su quell’apparato tipico delle consuetudini aventi valore di legge (il precedente, la giusta condotta, la compensazione, la punizione – magari divina – in caso di violazione), ma si improvvisa, non prevede condotte giuste o sbagliate, si dà senza pretendere nulla in cambio (in questo caso la restituzione dell’accoglienza è affidata a uno slancio ugualmente spontaneo), non interessano molto agli dei le sue vicissitudini perché è solo l’uomo che accoglie l’uomo.
Provarsi nello stabilire una contropartita dell’accoglienza è tendenzialmente inutile: ammesso che si verifichi (perché lo stesso slancio che porterebbe all’accoglienza potrebbe diventare paura e bloccare ogni apertura), l’accolto tende a restare e a diventare parte della vita di chi accoglie, fino a modificarsi a vicenda e ad assimilarsi (in ciò consiste la cosiddetta e apparentemente astratta “integrazione”).
In qualche modo, coloro i quali rispettano la regola Xenia hanno già qualcosa in comune. Condividono l’ospitalità come gesto sociale e credito futuro. Sono i taciti sottoscrittori di un accordo per rendere più sicuro il viaggiare e proficuo il sostare. Nel caso dell’ospitalità due persone convengono e mediano, ossia entrano in contatto secondo un accordo condiviso ed esterno superiore.
Questa rappresentazione è significativamente affine a quella che potrebbe farsi sul convenire su una verità, quando due persone possono intendersi su una verità solo se dialogano fino a convenire su una verità comune, su una intersezione delle loro due verità, o se incaricano un terzo di mediare fra le loro rispettive verità o se creano una verità anch’essa terza.
Anche in questo esiste una Xenia, che è quella della verità, in modo da poter ospitare l’altro nella nostra verità, certi che ne saremo ospitati, in questo modo, parlandosi e capendosi, convivendo semplicemente. Dire che si ospita una verità significa dire che a un certo punto essa dovrà andarsene e che noi faremo lo stesso quando saremo ospitati da lei: tenere le verità separate è il compromesso tipico di società con forti divisioni interne, in opposizione alla commistione delle verità.
Essere disponibili a modificare la verità di cui siamo portatori in seguito all’incontro con la verità portata da un altro uomo è inscritto nella categoria “politeismo” da Elogio del politeismo di Maurizio Bettini, dove si racconta della grande permeabilità religiosa dell’epoca classica, e “paganesimo” da Le radici pagane dell’Europa di Luciano Pellicani, che individua le origini culturali del movimento proto-capitalistico dei Comuni rinascimentali nell’antica autonomia di greci e dei latini rispetto al sacro. Le logiche monoteistiche tendono a non accettare contaminazioni, quelle politeistiche le accettano e le sfruttano ammettendo la contaminazione.
La logica monoteistica produce una verità negoziata, che regge e si poggia su un’ospitalità negoziata, è la versione originaria della sua relativizzazione contemporanea, ossia l’accoglienza dei migranti africani.
È solo per svista linguistica che la chiamiamo “accoglienza” perché le manca, dell’accoglienza, l’assenza di una regola comune preesistente, che nel caso dei migranti è rappresentata dal diritto e dai trattati internazionali nonché dalla legislazione dei singoli paesi.
L’accoglienza non si basa su questi presupposti, poiché non ne ha: si manifesta come soggettiva fiducia nel prossimo, immotivata e salda convinzione che forse le cose potrebbero migliorare nell’incontro. È l’ipotesi – né ragionevole né irragionevole perché mai ipotizzata – di modificare il nostro sistema economico e giuridico coinvolgendo chi arriva, apprendere da lui, conoscerlo aspettandoci di guadagnarci comunque qualcosa che non restando nel nostro sistema monoteistico.
Nell’ospitalità è in gioco il legame distributivo, che regola il rapporto in base a ciò che si è dato e si è ricevuto per stabilire a chi dare e da chi ricevere. Nell’accoglienza si instaura un legame proiettivo, invece, poiché si accoglie perché si vorrebbe essere accolti, ma non nel senso che poi si chiederà una contropartita bensì in quello di una compassione in cui si compartecipa dei bisogni e soprattutto delle necessità dell’altro. Chi non accoglie sa che nessuno lo accoglierebbe. In questo sta il senso di solitudine dell’Europa.
Distinguiamo incidentalmente necessità e bisogno: la prima è l’estensione non materiale del bisogno, che ne è una parzialità. Il bisogno è un aspetto parziale della necessità perché ciò che spegne il bisogno è il bene in sé, mentre ciò che spegne la necessità è il senso del bene. Il cibo spegne il bisogno, il “focolare” spegne la necessità: cose diverse, con canali diversi e movimenti diversi.
Ci sembra di poter dire che nell’ospitalità si soddisfa il bisogno (giaciglio, vitto) mentre è nell’accoglienza che la necessità ha qualche possibilità di quietarsi. L’accoglienza è fatta da chi vuole salvare, non solo ripescare e smistare.
Torniamo forse troppo a marcare le differenze fra questi due modi, ma si tratta di metacategorie che ci sembrano decisive della relazione (come siamo portati a ricevere l’altro) e della correlazione (come siamo portati a pensare l’altro) fra esseri umani.
Quest’ultima in special modo rivela l’esistenza di un processo di significazione del prossimo basato su un sistema di senso, o contesto, in cui – per così dire – lo inquadriamo: prima ancora di vederlo, sappiamo che l’altro esiste e ci prepariamo a riceverlo, lo pensiamo, creiamo per lui un posto nel nostro immaginario, poi una serie di “oggetti reali” (le immagini dell’esodo, per esempio) si correla a quel che abbiamo immaginato e ne scaturisce una emozione, o reazione.
Vediamo la foto di Aylan, i video degli assalti ai treni, ascoltiamo notizie sul marciume sorto attorno al giro economico legato alla gestione dell’immigrazione; assistiamo a queste cose e poi, sulla base del modo in cui ci eravamo preparati all’evenienza, le assimiliamo secondo la nostra fisiologia mentale; da questo correlativo oggettivo nasce la reazione all’altro, il porgersi verso di lui, la relazione.
Contesto, correlazione e relazione non sono gli stessi nell’ospitalità e nell’accoglienza.
L’ospitalità, dinanzi agli “oggetti reali”, al contesto, evoca le leggi dell’ospitalità e correla chi giunge a una categoria prestabilita: profugo, migrante economico, clandestino, turista, viaggiatore, peregrinus, camminante, zingaro ecc.; a livello di relazione si declinerà in quel tipo di ospitalità erroneamente detta “accoglienza dei rifugiati”.
L’accoglienza è piuttosto semplice nella correlazione: al comparire degli “oggetti reali” c’è la proiezione di sé sull’altro. La relazione è immediata: uno slancio verso la persona o il gruppo o il popolo “solo”, il pensiero spontaneo di provvedere a lui sapendo chiaramente cosa dargli, proprio come se ci avessimo pensato prima di vederlo. Questa è definibile propriamente come integrazione.
Dato che, specialmente per via della cronaca, si è abbondantemente parlato di ospitalità (anche sotto pseudonimo), dovremmo forse provare a trovare delle proprietà peculiari dell’accoglienza, perché almeno nel discorso pubblico si dovrebbe cessare questa dannosa confusione che consente di pensare che le migrazioni dei popoli di stati o continenti stiano nei margini della normativa vigente o – cosa ancora più eccentrica – l’idea di poterne non essere toccati radicalmente.
La prima proprietà dell’accoglienza è il garbo. Il senso di straniamento nel sentire questa parola, ormai in declino, in relazione alle attuali migrazioni non è frutto di una stramberia insita nella parola stessa, ma della nostra disabitudine a udirla e a collocarla in quell’ambito (cosa che ancor più segnala l’oblio dell’accoglienza).
Il garbo nell’accogliere è la cura dell’accolto dal punto di vista della necessità, lo ripetiamo. Ciò definisce l’offerta di accoglienza come non semplicemente suscettibile a correttezza o scorrettezza formale (il garbo dell’ospitante), ma a completezza o incompletezza. Il dovere di chi accoglie non si esaurisce (ai suoi medesimi occhi) col dare ciò che serve, ma anche ciò che occorre: partecipazione, empatia, disponibilità.
È la persona nella sua semplice complessità a venir accolta, non solo il “caso” che rappresenta (agli occhi della Xenia, della Convenzione di Ginevra o di Dublino ecc.) e questo comporta da una parte di reputarsi pari all’altro – poiché, per prima cosa, gli diamo quel che istintivamente vorremmo noi stessi nei suoi panni – e dall’altra di reputarsi totalmente alieni da lui, disuguali, dato che è un soggetto unico che accogliamo e a cui vogliamo – non solo dar da mangiare, ma anche – “dar da parlare”, ossia assistere anche il suo lato propriamente umano, cioè quello mentale, emotivo, sentimentale. E non è possibile farlo se è uguale a noi.
Chi accoglie, a differenza di chi ospita, non ha una posizione predefinita in cui porsi rispetto all’altro. Il garbo consiste dunque nell’adattare la propria posizione rispetto all’altro in modo da renderlo parte integrante di questo adattamento. Nell’ospitalità i ruoli sono stabiliti a priori, l’ospitante ha una posizione fissa che non cambia rispetto all’ospitato. La posizione di chi accoglie si modifica, a volte anche sensibilmente, rispetto a chi è accolto.
In ciò si sostanzia il garbo: nella presa in carico della necessità dell’altro di star bene, a proprio agio come noi, di riguadagnare una parità rispetto a chi lo accoglie (poter incidere sull’esistenza quanto lui, ma dalla propria posizione, non da una uguale all’accogliente). Per chi accoglie, ovviamente, ciò significa ridefinire la propria posizione rispetto all’accolto e alla verità negoziata e condivisa. È palese qui la valenza politeistica a cui abbiamo già ricorso: cambiare posizione è, per chi accoglie, l’occasione di cambiare punto di vista all’interno del suo stesso spazio mentale, che probabilmente non avrebbe esplorato senza l’arrivo dell’altro.
La seconda proprietà, conturbante quanto la precedente, è la disponibilità. Purtroppo, anche questa parola è stata distorta dall’uso scriteriato che se ne fa dalle tribune politiche fino alle sagrestie e alle manifestazioni di piazza. Guardandola allora da un punto di vista diverso sarà forse possibile riappropriarsene.
Osserva il mistico indiano Kabir:
«colui che, seppur ricco ed influente, non ha mai provato amore, è come l’ospite che arriva in una casa disabitata: viene e riparte senza che nulla accada».
Kabir, Sakhi, II, 18
È indicativo che l’assenza di amore sia assimilata a un soggiorno in una casa disabitata, ma ancor di più che sia l’accadere di nulla il termine medio della similitudine.
Venire e ripartire «senza che accada nulla» è come fare il proverbiale viaggio a vuoto, e dunque il venire e il ripartire sono stati inutili. Una tappa che si poteva risparmiare. Dire che qualcuno poteva risparmiarsi di vivere perché senza amore la sua vita è “a vuoto” non è banale. Pensare che lo sia è indice di una prospettiva ridotta.
L’amore nella vita è come il fermarsi in una casa abitata, dà alla tappa quel che la rende utile, cioè vitale: che accada qualcosa. Si cerca accoglienza presso il prossimo (anche) per far accadere qualcosa.
Le regole dell’ospitalità che Telemaco rinfaccia ai Proci (ammonendoli dal gozzovigliare, dal violentare le ancelle, dall’essere sgarbati coi suoi ospiti) richiamandoli all’ordine sono le stesse che i governi europei e una parte ingente della cittadinanza ripetono oggi a chi arriva per mare o dal deserto e ciò manifesta la nostra incapacità di applicarle correttamente in base alla situazione.
L’ospitalità – dinanzi a casi come quello dei siriani, che ad agosto 2015 sono entrati in Grecia dalla Macedonia e fermati alla frontiera hanno implorato di far passare almeno i bambini – è quasi totalmente impotente. L’ospitalità garantisce la sicurezza, la reciprocità e l’uguaglianza, ma in casi straordinari le regole rischiano di saltare o saltano del tutto, quello che le consolida e le salva è la capacità di mantenerle coniugandole con la propria coscienza e coi suoi slanci, che però sono impalpabili rispetto al nero-su-bianco e perciò deboli.
Il tratto della disponibilità equivale al dono d’addio della Xenia, quello che l’ospitante faceva all’ospite che partiva: nella disponibilità, il passaggio di qualcosa è naturalmente smaterializzato perché soddisfa la necessità e non il bisogno, è infatti il passaggio del tempo. Chi accoglie dà la sua attenzione, il suo ascolto, dunque il suo tempo, a chi viene accolto. Questo impiego condiviso del tempo è l’evento che rende abitata la casa della nostra citazione iniziale, ossia l’amore che fa “accadere qualcosa” nella vita e la rende una tappa significativa: dare tempo significa avere tempo, riaverlo riempito, non scialacquarlo. Probabilmente è molto radicata la convinzione che il tempo sia un bonus cumulativo.
La terza proprietà dell’accoglienza è la scelta. Chi accoglie, raccoglie. Lo sceglie. È una specie di lotteria, in cui una persona, di fronte a suoi simili necessitanti, decide di raccoglierli tutti o alcuni o uno solo per sua spinta interna. Potrebbe anche non sceglierne nessuno, ma farlo in futuro o averlo fatto in passato. Il motivo che spinge a raccogliere, ovvero la verità personale che guida la scelta etica dell’accoglienza, è imprevedibile perché non deriva dall’etica fondata sulla verità convenzionale.
La verità soggettiva, saldamente ancorata al nostro egoistico sentimento di piacere, è una verità eterogenea e arbitraria, al contrario della verità negoziata, che è sempre prevedibile perché deve servirsi del discorso comune condiviso per poter valere come verità. Il giusto e lo sbagliato sono basati su questa verità comune, ma il piacere a cui questa verità si ancora non è dell’individuo bensì dell’ordine sociale. La differenza è quella che potrebbe passare fra un lettore che ama un certo autore e uno che lo legge per lavoro: il primo continuerà a leggerlo fino a quando la loro relazione a distanza non sarà finita per sopraggiunto disamore, il secondo lo leggerà finché sarà “giusto” farlo (ossia finché lo pagheranno per farlo).
Esiste il frequente errore di pensare che l’etica possa essere un fatto in qualche modo pubblica, ma è improprio, visto che nel pubblico il ruolo dell’etica è ricoperto dal diritto, con tutti i suoi limiti.
L’etica connessa alla verità soggettiva, invece, richiede un legame emotivo, che però può anche essere rivolto alla collettività, cioè al pubblico, ma sempre come legame emotivo fra due individui reali, altrimenti non avrebbe senso parlare di empatia.
Il legame etico che porta a difendere i compatrioti, per esempio, coinvolge ovviamente una pluralità di individui – i compatrioti – e dunque dove sono i due individui reali? Sotto l’apparente molteplicità di soggetti, in realtà si cela la singolarità del loro status: sono tutti un solo individuo, un solo “compatriota”, come un legame fraterno che coinvolge più soggetti tesi fra la propria soggettività e la fratellanza comune. Il legame etico si sostanzia perciò in questo coinvolgimento emotivo fra un singolo e una categoria, che grazie al quantum emotivo viene antropomorfizzata come se fosse un unico oggetto d’amore: il compatriota, il confratello. Chi raccoglie il profugo, sceglie di accoglierlo in quanto in lui ravvisa un frammento di un’unità più generale di cui lo chiama a far parte.
Senza questo gioco di proiezioni l’etica è vuota e si trasforma in diritto, legge, regolamento, regola. Quello stesso diritto, legge, regolamento e regola che finiscono col proibire l’ingresso dei profughi o consentirlo a singhiozzo e a convenienza.
Ciò non è in sé sbagliato, ma lo diventa se non lo rendiamo motivo di riflessione su quali siano i nostri limiti e verso quale futuro andiamo realisticamente. La scelta deve perciò essere consapevole, sennò si fanno pronostici fantasiosi, come quello sulla pretesa santità dei profughi (corrispondente in negativo della credenza antica che sotto le spoglie mortali dell’ospite potesse anche celarsi una divinità: si tratta in entrambi i casi di avvolgere questo altro che ospitiamo con un velo di fantasticheria che altera il nostro rapportarci a lui).
La quarta proprietà, che potrebbe spaventare per la sua vaghezza, è l’empatia. Ma è solo apparentemente vaga, perché apre una serie di interrogativi che ci riguardano sui diversi piani della nostra identità, fino alle profondità oceaniche della personale soggettività. Gli interrogativi sono: cosa dare di sé a un altro che chiede aiuto? Quanto di sé si rivede in lui? Fino a che punto quel principio dell’ama il prossimo tuo come te stesso è osservato?
Siamo sensibili a molte idee antropocentriche e umanistiche, dove l’uomo è fine e non strumento e in cui la vita umana ha un valore assoluto. La vulgata religiosa si esprime negli stessi termini, rivolgendosi a un pubblico meno antropocentrico.
Per questo siamo a disagio a dover ammettere che abbiamo talmente paura del futuro da non poter dedicare attenzione a questo evento. La paura del futuro è frutto dell’ignoranza totale di un numero elevatissimo di individui, che rimangono su un piano di realtà, ma con la prospettiva del topo braccato dal gatto che si rifugia nella trappola.
L’episodio di austriaci e tedeschi che vanno a prendere e accolgono i siriani è un grande esempio di accoglienza.
Al contrario, l’idea di Angela Merkel di far entrare i siriani in barba al trattato di Dublino (salvo poi ripensarci) per necessità di ricambio generazionale e manodopera docile a costo ragionevole è una forma di normale calcolo politico, ma non è accoglienza. Eppure, tramite i media, si è data la stura a questa fola.
L’empatia dell’accoglienza rende l’altro lo specchio in cui guardarsi stando nei suoi panni e rende possibile salvarci salvando lui. La difficoltà, oggi, di accettare lo svolgersi degli eventi cercando di arrivare a una stabilizzazione senza traumi marca il fatto che non riusciamo a vederci nell’altro o che non siamo in grado di salvarlo: il rimosso è che non possiamo salvarci. L’empatia ci richiama a questo bivio e mette in discussione la nostra capacità di accogliere e salvare noi stessi, visto che stentiamo a farlo con gli altri; in altre parole, frustra la nostra aspirazione di rimanere sempre così prosperi perché, non solo i cambiamenti globali ci dicono che sarà difficile se non impossibile, ma per di più i paesi europei in difficoltà come l’Italia sono penalizzati da misure come quelle adottate in Svizzera contro i frontalieri e in Gran Bretagna da Cameron. Siamo anche noi delle specie di siriani, solo più fortunati. A livelli diversi, la tendenza dei paesi ricchi è la stessa.
Ovviamente queste barriere sono solo un modo per deviare il fiume, la diga non c’è e se ci fosse non è certo che reggerebbe. Anzi. Teniamo un atteggiamento difensivo e paranoico simile a quello dell’Australia, che però è un’isola fra l’oceano Indiano e quello Pacifico e se lo può permettere.
La posta messa in gioco dall’accoglienza con l’empatia è semplice: non conta se vogliamo accogliere o no, ma a condizione di essere consapevoli del motivo, perché quest’ultimo ci definisce.
In conclusione, i due fenomeni che abbiamo osservato, ospitalità e accoglienza, rappresentano le due varianti del discorso con l’altro: nel primo caso l’altro ci deve essere presentato preventivamente (da quel mediatore evanescente che è la “legge dell’ospitalità” quale che sia) come variabile di una certa regola che soprintende al nostro rapporto, nel secondo caso l’altro ci accade perché accettiamo che ci modifichi e accettiamo di modificarlo tenendo queste due accettazioni indipendenti fra loro. Nella pratica, da una parte l’Unione Europea che decide a priori cosa fare di chi arriva e dove dirigerlo (come se avesse realmente il potere poi di tenerlo dove lo dirige), dall’altra i cittadini tedeschi e austriaci dell’episodio citato.
Si tratta di schemi di comportamento collettivi desumibili dagli snodi principali della cosiddetta semiosfera, del modo in cui essa si struttura a rendere intellegibile il problema, ma di tutto questo non c’è consapevolezza e dibattito, perché se ci fossero osserveremmo anche delle alternative concrete improntate all’accoglienza, visto che i rimossi del modo in cui ci autopercepiamo rispetto alla posizione dell’altro nell’ospitalità si trasformano in punti deboli della nostra capacità di adattamento al mondo.
Simili movimenti storici richiedono una grande consapevolezza dei propri limiti e delle proprie qualità per venir superati indenni. E noi sembriamo non esserne minimamente in grado.
La presente riflessione non è un invito a far entrare indiscriminatamente e senza criterio chiunque e sul piano pratico non saprebbe spingersi oltre in un numero ragionevole di pagine. Esprime tuttavia una diffidenza rispetto alla rozzezza con cui l’Europa risponde ai tempi.
Continuare a ribadire formule di burocratica ospitalità, come se fossero formule magiche capaci d’allontanare l’incombenza e non normali convenzioni autoimposte, ci sembra francamente straniante: l’audio non sembra in sincrono col video.
Dobbiamo invece domandarci se queste formule funzionano ancora. Ma non lo facciamo, perché usarle ci consente di far finta che siano ancora valide e perché sostituirle significherebbe cambiare la nostra vita. Allora, più che formule magiche, sono formule di un mantra, un rosario, una filastrocca. Con le quali opponiamo resistenza come se fosse possibile. Non si tratta di nichilismo umanitario, ma di pragmatismo. Perché anche fermate un po’ di migliaia di persone siamo sempre nelle condizioni di chi deve raccogliere al volo una cascata di chicchi di riso in caduta libera. Ancora pragmatismo è tenere in conto, riflettere e focalizzare le ragioni umane – alquanto potenti – che muovono i migranti. Ed è sempre pragmatismo interrogarsi su cosa stiamo facendo in questo continente che sembra sempre dibattersi nei medesimi problemi, sordo al flusso della storia, incapace di mettere a frutto la memoria se la conserva; interrogarsi su cosa stiamo facendo noi di così interessante qui da soli in questo nostro accogliente stagno immobile da trent’anni, a parte essere perennemente in crisi.
Non porci almeno queste interrogazioni denuncia un punto di vista così parziale da essere sospetto.
Nota del 15.10.2017: cfr S. Paolo, Corinzi “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”.