Disistante: una definizione politica
Ci sono circostanze, anche politiche, che talvolta smascherano certi deficit lessicali con cui bisogna misurarsi, se non altro per essere davvero in grado di “chiamare le cose col loro nome”. Queste circostanze si pongono con una certa frequenza soprattutto se si cerca di ravvisare un senso nel flusso incontrollato della cronaca. Un esempio potrebbe venir trovato in un fattarello stagionale a metà fra il tragicomico e il compassionevole.
Abbiamo già parlato dell’infelice uscita di Franceschini sugli italiani, duretti di comprendonio per quanto riguarda la tecnologia, ma affilati come spade sulla storia medievale (Mondoperaio, 9/2014). Mal gliene incolse, dato che – notiziola dell’estate – un po’ di direzioni museali sono andate a non italiani (quindi, forse, nemmeno studi come la storia medievale sono esattamente il nostro forte). Ma non sono le direzioni il problema: lo è il tuitt della vendetta.
Non stranieri, europei – si è subito affrettato a replicare Franceschini nel tuitt di prammatica (la massa dei votanti esigeva dal politico il “parlar chiaro”, ora è accontentata, ma chi può sostenere che la chiarezza stia in 140 caratteri spazi inclusi?).
Qualcuno potrebbe cinicamente chiosare che il povero Franceschini ha subito il solito destino della macchietta che zagaglia e s’impappina quando gli si fa notare che dice insensatezze. Infatti, all’epoca, quelli bravi in storia medievale erano solo italiani, non europei. Interessante come all’occasione la nazionalità valga o defunga. Però tutto ciò è secondario.
Dovremmo sforzarci linguisticamente di trovare una parola che renda l’idea in queste occasioni, quando diamo una risposta che ci sembra vincente e invece cadiamo in contraddizione, quando per affermarci ci smentiamo, quando stiamo vivendo un momento di allegria e il lontano ricordo di quando abbiamo tolto il dente del giudizio ci rovina il momento e ci toglie l’allegria.
La vita quotidiana, di cui la politica è la zigrinatura, è infarcita di questi attimi di derealizzazione, di improvvisa depressione nel mezzo dell’euforia placida di una giornata positiva, perciò è per questi attimi e per la sensazione che proiettano che dovremmo trovare una parola giusta e apposita, che li definisca senza ambiguità.
Come si potrebbe chiamare il momento, esteso come la punta di uno spillo, in cui Franceschini, trionfante dopo aver tuittato quella che gli pare una risposta di serie a, ripensa – se l’ha fatto – a quando ha detto quella cosa sulla storia medievale?
Vediamo quasi la curva del suo sorriso raggrinzirsi fino a somigliare al profilo di un promontorio, non della paura ma del… E qui manca la parola.
Potendo sfruttare questa rubrica anche per scopi più elementari e complessi del commento, azzardiamo una proposta, affinché anche le categorie più umili del nostro establishment (massmediologi, esperti di comunicazione, rilevatori del gradimento del pubblico, sondaggisti e sondatori dello storytelling politico ecc.) possano servirsene come parametro: la parola è “disistante”, segue – volutamente lontana dal didascalismo da calepino – definizione.
«Situazione di disagio nel bel mezzo di una situazione piacevole dovuto a un momentaneo dissesto della memoria. Per es., ci si trova a una festa e ci si sta divertendo. L’umore é buono, il comportamento spigliato, un bicchiere in una mano e si é creato un bel clima fra gli invitati. Compagnia piacevole e gaia, donne attraenti, conversazione brillante. Siete l’anima della festa, quasi. Non potrebbe andare meglio. Nel bel mezzo del divertimento, al culmine del sorriso meglio riuscito, un pensiero della durata di un istante, una scheggia incredibilmente piccola di un ricordo remoto e sgradevole si ripresenta come una puntura di spillo che sgonfia il buonumore e manda a male l’umore del resto della serata.
Per esten., sensazione che si prova quando in un film per bambini compare un fotogramma porno e da quel momento si teme che ve ne siano altri e che i bambini dopo chiederanno spiegazioni, timore che rende snervante il resto della permanenza nel cinema (cfr. Fight Club).
Il D. é quell’istante dissestante e discordante in cui il ricordo di una frase, situazione, persona, evento, luogo, impressione sgradevoli, spiacevoli, irritanti, rattristanti, innervosenti totalmente chiuse e dimenticate in un passato non prossimo guizza fuori a tradimento rovinando una situazione in sé assolutamente godibile».
Ovviamente, l’esempio della frase di Franceschini è solo strumentale, di esempi ce ne potrebbero essere altri, forse più convincenti a seconda dell’orecchio, ma ci piaceva per la sua simmetria bonaria, per la sua insignificanza. Cosa assai più penosa sarebbe stata quella di usare come caso di scuola quello celebre di Enrico Letta, che passeggia felice in qualche ameno campus dove insegna e, all’improvviso, una frase gli balena nel cervello: “stai sereno”. E la giornata è irrimediabilmente rovinata.