“Bisogna avere il coraggio di…”. L’ha ripetuto molte volte Renzi da Vespa il 16 giugno. Una litania, un intercalare. Ovviamente, a seguito del mostruoso problema rimosso che abbiamo con scuola e informazione, i giornali hanno preferito gongolare con la gaffe del premier che ha detto “noi abbiamo alzato le tasse”: i lapsus sono la gioia di un sistema d’informazione comodamente tarato su un pubblico dalle conoscenze e dalle priorità approssimative, si sa.
Ma un’opportuna domanda sarebbe quale dovrebbe essere il sottinteso di un simile intercalare.
Non si tratta di una perplessità peregrina, dato che il nostro primo ministro ha molto a cuore i gruppi d’ascolto e, per sua proiezione, s’immedesima in Frank Underwood (imponendo al suo creatore, Dobbs, di inviargli un ammonimento etico per iscritto).
Se bisogna avere coraggio è perché finora non lo si è avuto. Non parla d’incompetenza o corruzione strutturale, se non per incisi, ma di coraggio. È lui quello che si accolla l’onere di manifestare il vuoto di coraggio, col correlativo oggettivo dello scontro generazionale fra giovani schietti e coraggiosi e vecchi cerchiobottisti pappamolle. Un simile discorso, in un paese incapace di decisioni (cosa che contraddistingue una pur minima sovranità), non può che far presa.
Il sospetto d’inconcludenza è presto tacitato da una serie di mosse che incontrovertibilmente Renzi ha fatto, nonché da una sacrosanta verità: la politica non può muoversi dall’oggi al domani, ha certi tempi, non è una rivoluzione, le rivoluzioni (altra verità, di tipo sociologico) non portano a nulla di buono. Il riformismo, basandosi sul confronto e la dialettica politica, ha costitutivamente tempi “morti”, ossia di dialogo e messa a punto.
Tuttavia è proprio questo che la politica è diventata da Berlusconi in poi: la suggestione di un vuoto.
La politica è strumento per conferire ai cittadini le condizioni per perseguire i propri obiettivi, ma la mediatizzazione della politica ha deformato questa visione pragmatica trasformandola da programma per conseguire una condizione a offerta di una visione di vita. Offerta di un’occasione di colmare un vuoto. Così, a cominciare da Berlusconi, il programma è una lista della spesa bidimensionale che ispira certi valori, anziché una strategia per darci quel che ci serve per realizzarci.
Renzi porta a regime un embrione, invero già ben sviluppato dal ventennio berlusconiano, di rispecchiamento del vuoto.
Non ci sorprendiamo quotidianamente di come proposte politiche vacue giustapposte in slogan riscuotano un successo spropositato? Ebbene, Renzi rappresenta il coronamento di questo rispecchiamento/offerta di vuoto, così seducente.
“Bisogna avere il coraggio di…” manifesta un vuoto e nel suo offrirlo pubblicamente determina una simpatia automatica in chi ascolta: la simpatia di chi (non) ha qualcosa in comune. Dire “mi manca qualcosa” significa diventare intimi di tutti quelli a cui, similmente, “manca qualcosa”. In questo caso è il coraggio che manca ed è mancanza comune e accomunante.
Purtroppo, però, non basta riconoscere una mancanza per compensarla e qui viene l’inghippo politico del gradimento, la classica “fine della luna di miele con gli elettori” (concetto, anch’esso relativamente nuovo, diremmo vintage). Espressa la comunanza di un vuoto o lo si colma – interrompendo la comunanza – o si passa al vuoto successivo.
Churchill colmò un vuoto durante la guerra: quello del capo. Alla fine del conflitto si candidò e non vinse le elezioni. Colmato il vuoto era finito il rapporto.
Nel caso di Renzi, invece, lo scambio del vuoto ancora regge e potrebbe estrinsecarsi appunto o in un colmare che poi lo espungerebbe dal gradimento o in un passaggio a un altro vuoto.
Possiamo fare dei pronostici. Dopo “bisogna avere il coraggio di…” potrebbero avvicendarsi “c’è necessità di…”, “facciamo uso di…”, “chiediamo qualcosa a…”, magari specificandosi in “c’è necessità di rinnovamento”, “facciamo uso di un potere datoci dal voto”, “chiediamo qualcosa a chi sta meglio”.
Forse, solo alla fine di questa sequela, il lapsus delle tasse assumerebbe uno spessore superiore alla gaffe grottesca. Ma, tutto sommato, visto che non è di politica economica che parliamo qui, la questione ci tocca non oltre un certo punto. Quel che dovrebbe premerci è la costanza di questo schema che da noi impazza, che si risolve sempre in un transfert con un certo leader politico televisto con cui entriamo in confidenza poiché mancante della nostra medesima mancanza: tale costanza ci dimostra che siamo in un momento in cui l’offerta di qualcosa di pieno, l’offerta non di una mancanza ma di una presenza, ci mette ancora a disagio, come se non ci fidassimo di chi ha una cosa palpabile da darci. È forse ciò che viene definito “sfiducia verso la politica” o che detona in astensionismo.
A ogni modo, qualunque sia il vecchio amore che ci ha traditi, sembriamo non volerlo dimenticare, tenendolo con noi come unico oggetto meritevole del nostro profondo disprezzo.