Che la Rai sia diventata una specie di tv home made della Transinistria è ormai acclarato anche dai telespettatori più sciovinisti. La riprova all’Eurovision Song Contest, dove Insinna e Russo, i due presentatori, hanno impedito di ascoltare lo svolgimento della serata, parlando sopra i presentatori veri: non che l’orgia di cattivo gusto del programma riservasse chissà cosa, ma è il principio. Il fatto che ancora occorrano presentatori-stampella a cui far appoggiare i telespettatori zoppetti è raccapricciante, ma getta luce su un ristagno profondo e grave del servizio pubblico. Sappiamo che il ristagno comincia dal mancato ricambio generazionale, per cui non c’è modo di aggirare un’offerta a dimensione di ospizio, sintetizzata in “Unomattina” o “La vita in diretta”, che forse anche per un ospizio sono troppo fiacchi – tanto vale a quel punto la santa messa col brio di Francesco. Il ristagno comporta il declino culturale, per cui dall’ospizio si passa al cronicario, in cui c’è da sorbirsi programmi come “Linea Notte”, stantio quanto le patate di contorno di un self-service, sempre inconcludente, interruptus. Alla fine arriviamo ai grandi must: “La prova del cuoco”, “Affari tuoi”, Marzullo (che è lui stesso un programma e, sia detto per inciso, quello a cui è affidata la parte culturale) nonché, toccando il cielo con un dito, il telefilm “La casa nella prateria”, che ci si permette ancora di mandare in onda nell’anno di grazia duemilasedici. Se non fosse delirante sembrerebbe un contorto esperimento sociale. Ma l’argomento che davvero fa scendere una lacrimuccia è l’informazione: i tg, col loro uso antidiluviano delle immagini (se si parla di burocrazia si vede un ufficio qualsiasi dove cammina della gente con dei faldoni in mano o per le banche passano immagini di persone che contano del denaro – un paio di volte si son viste persino delle lire tanto erano vecchie le riprese) e l’incongrua applicazione dei criteri di notiziabilità (fra cui c’è la “qualità”, che è un valore specifico con marcatori ben definiti, non un sostantivo dall’orizzonte vago). Però, a parte le inchieste di “Report”, una forma di giornalismo (con tutte le definizioni che possiamo trovare, a partire da “gonzo journalism”) che si salva e anzi si fa portatrice di un gusto e un contenuto è quella di “Gazebo”. La manifestazione dei sindacati a Genova quando la poliziotta si tolse il casco per evitare una carneficina, gli appuntamenti della ricostruzione dell’Aquila, i migranti al confine Macedone, il Papa a Lesbo ecc.: Diego Bianchi, il conduttore, e i suoi collaboratori hanno fatto una copertura di tutti questi eventi che nessun telegiornale ha fatto. Niente inviati imboscati (Giovanna Botteri, precisamente, che ci fa negli Stati Uniti?), niente immagini votive di repertorio, ma annaffiature di umorismo, musica (di quella solitamente assente in tv) e movimento. Diego Bianchi non è certo un giovincello – a dispetto delle magliette – e conduce circondato da simpatici cinquantenni, o quasi, il programma. Il ristagno, infatti, come dicevamo, è generazionale, non anagrafico: l’uso di twitter, mostrato durate la messa in onda, è smaliziato, appropriato ai tempi e al mezzo; l’ironia sulle notizie è calzante, e la commistione fra Damilano e Makkox ne è la cifra; il coinvolgimento del pubblico è completamente guadagnato, goccia su goccia, frase dopo frase e battuta dopo battuta. Anche quando rallenta un po’, è il rallentamento fisiologico di una serata fra amici. Non stiamo parlando di televisione colta, alta e in diretta dagli alberi pizzuti come “Zettel”, bensì di televisione popolar-pedagogica vecchio stile, magari un po’ sbilanciata verso un certo nostalgismo “de sinistra”, ma alla fin fine non stona neanche: ricorda, per certi versi, l’Arbore che, fra una balla e l’altra, diffondeva per le case degli italiani, anche i più provinciali e annoiati, il miglior jazz in circolazione sia per l’epoca che per oggi. Il giornalismo mostrato a “Gazebo” è al momento l’unico sprazzo di informazione decente in Italia, laddove Radio Radicale (pace e benedizioni su lei), per ovvie ragioni, risulta ostica a otto persone su sette. A differenza dei tiggirai le dichiarazioni politiche non sono affidate al famigerato panino (inventato, si dice, da Mimum: governo-opposizione-maggioranza), il giornalista è dentro la situazione che sta raccontando, le cose che dice non sono sterili agenzie rimpastate, profuma di reale anziché di acchittato, non rimesta nel ferino e neanche nel feriale, non c’è deamicismo né cattivo gusto, non c’è sopraffazione, le domande vengono poste ai protagonisti delle notizie dando loro il tempo di esprimere quello che succede senza troncarli a metà frase per poi montarli in mezzo a un paio di riprese random, c’è spazio per ironia e considerazioni personali, c’è agio, c’è ritmo, c’è attenzione e compartecipazione (se Bianchi ha una dote è raccogliere testimonianze, dai camalli ai rifugiati): insomma, c’è qualcosa di umano in questo modo di informare.
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