da Pagina99 del 3 gennaio 2015
Era il 6 dicembre del 1953 quando Vladimir Nabokov, all’epoca poco conosciuto insegnante e traduttore (già catalogatore di insetti al Museo di Zoologia Comparata), finì il manoscritto di Lolita, introducendo di colpo nell’uso comune le preesistenti parole “lolita” e “ninfetta”, un’etichetta sociologica e una categoria dello spirito.
I buoni risultati economici ottenuti fin lì in Europa quando scriveva in russo per gli emigrati della Rivoluzione e in America coi libri scritti in inglese erano stati troppo modesti per dargli la stabilità economica, ma Lolita cambiò il suo destino.
Tuttavia, senza la moglie (e braccio destro autoriale) Véra, il manoscritto sarebbe finito in cenere, visto che lui, ogni tanto, cercava di bruciarlo in un bidone zincato sistemato sul retro della loro casa in Seneca Street a Ithaca. Perciò, malgrado il libro fosse quasi pronto dall’autunno del 1948, dobbiamo posticipare la data di conclusione al 1953: nel frattempo migliaia di dubbi e riscritture erano intercorsi in quella costante ricerca d’equilibrio e arguzia che è l’opera di Nabokov.
Così, anche grazie alla prontezza e al lavoro della signora Nabokov, abbiamo questo capolavoro, la cui salvezza, come ricorda Stacy Schiff in Véra. Mrs Vladimir Nabokov, “nel contesto e nel clima in cui Nabokov scriveva all’inizio degli anni Cinquanta, è la testimonianza dell’abilità di Véra – come di suo marito – a tenere il torvo senso comune fuori dalla porta e sparargli in fronte quando si avvicinava” (p.207). In realtà lei temeva che il fantasma dell’opera incompiuta e dissolta finisse con l’ossessionarlo e pregiudicarne l’arte, la cosa più importante per lei.
È appunto l’arte il perno della vita dei Nabokov, anche se paradossalmente l’enorme successo di Lolita nacque dall’aura di oscenità dovuta all’incomprensione della sua genialità artistica. Certo non aiutò l’uscita con l’Olympia Press – nota casa editrice erotica parigina con un catalogo a dir poco fantastico – ma la frettolosità dei critici che lo stroncarono merita tutt’ora un posto d’onore nel medagliere dell’ottusità. Solo Graham Green fu abbastanza veloce e intelligente da indicarlo subito come libro grandissimo spianandogli la strada.
Ma il problema dell’arte in Nabokov non finisce con l’equivoco su un singolo testo.
Lila Azam Zanganeh, in Un incantevole sogno di felicità, spiega come in lui “natura e arte posseggono la stessa misura umana di beatitudine. E dietro tale beatitudine si cela l’intuizione che i disegni straordinari dell’arte e della natura riflettono altre, più remote e insondabili armonie” (p.157). Ecco il nocciolo di questo sfuggente genio: l’armonia felice, spesso invocata con storie anamorfiche in cui il potenziale della letteratura, cioè l’impossibilità di far vedere, diventa l’arma segreta della narrazione.
Nabokov, infatti, era un geniale prestigiatore della parola e del racconto, capace di distogliere l’attenzione del pubblico dai suoi trucchi attraverso eleganti manipolazioni dello spazio narrativo: una costante della sua opera come della sua vita. Come dice Stefano Bartezzaghi in un capitolo di Scrittori giocatori, Vladimir era un appassionato e brillante enigmista e i suoi libri sono pieni di anagrammi, frasi bisenso e rebus, “come già Dorian Vivalcomb anche Vivian Calmbrood era un anagramma autobiografico ed era uno scherzo” (p.128). In proposito ci sarebbero anche un Vivian Bloodmark e un mr. Vivian Badlook. Perfino il titolo Ada, or Ardor è un anagramma. La ragione di questi giochi, di questi piccoli inganni e scherzi, è semplice: l’armonia, per essere felice, deve giocare. La poesia sta proprio nel gioco fra arte e natura, che altrimenti non si incontrerebbero. E per questi giochi vanno bene anche le occasioni pubbliche: rispondere di aver appreso l’inglese sul dizionario Webster, cos’è per un poliglotta così raffinato ed esperto traduttore se non un gioco?
L’occhio, Fuoco pallido, Lolita sono tutti libri in cui l’invisibilità della pagina tipografica viene sfruttata a questo scopo fino in fondo e magistralmente: se nel film di Kubrik vediamo subito che è Quilty che Humbert incontra alla locanda dove dorme insieme a Lolita, nel libro crediamo che sia un poliziotto con uno strano accento. Nella stessa prospettiva si potrebbe usare Disperazione come libro di testo per un intero seminario di scrittura creativa dato che mostra i trucchi con cui un grande narratore sfrutta il medium della parola scritta evidenziandone quei vantaggi che il regista – frequentemente invidiato dagli scrittori zoppicanti – non può avere dal cinema.
In Buoni lettori e buoni scrittori, primo capitolo delle sue Lezioni di letteratura (a cui seguiranno Lezioni di letteratura russa e Lezioni sul Don Chisciotte), Nabokov dice molto chiaramente che “quando si legge, bisogna cogliere e accarezzare i particolari” (p.31), “non è possibile leggere un libro, si può soltanto rileggerlo” (p.33), ma sempre tenendo conto che è una fiaba, un’invenzione, perché “ogni grande scrittore è un imbroglione, ma lo è anche quella superimbrogliona che è la Natura. La Natura imbroglia sempre. […] Lo scrittore di storie inventate non fa che seguire la guida della Natura. […] Un grande scrittore associa in sé queste tre qualità: affabulatore, insegnante e incantatore; ma è l’incantatore che predomina in lui e ne fa un grande scrittore” (p.35). Attraverso queste finzioni si dà l’arte, cioè “una fusione tra la precisione della poesia e l’intuizione della scienza. Per godere di quella magia un lettore accorto legge il libro di un genio non con il cuore, e neanche tanto con il cervello, ma con la spina dorsale” (p.36).
È da questi imbrogli che affiora l’incanto, il gioco di prestigio, la Natura che incontra l’Arte in una fiaba, cioè in un grande romanzo.
Lo stesso principio vale nella vita di Nabokov, che si divertiva a leggere le risposte da un foglio per far credere agli intervistatori di non conoscere molto bene l’inglese: più che in un’opera d’arte, aveva trasformato la sua vita una felicissima fiaba.