Alexandre Kojève
La nozione di autorità
Trad. it. Milano, Adelphi, pp. 143, € 29,00.
ISBN 978-88-459-2620-4
La nozione di autorità è un libro eccezionalmente pratico, a dispetto delle sue categorie simili a luoghi mentali più che a personaggi da manuale di storia. Tuttavia proprio in questa “ripulitura” consiste la preziosità di questo libro: al netto di ogni contingenza, le figure dell’autorità ne risultano vivide e precise, attive come se fossero i protagonisti di un grande romanzo. Non per nulla Elisabeth Roudinesco riconosce a Kojève proprio la capacità di rendere i concetti filosofici più complessi come fossero le trame di feuilleton d’avventura.
Di Kojève non sono più un mistero i tratti personali singolari che lo hanno portato a rimanere praticamente inedito in vita e sempre poco conosciuto se non nell’ambiente filosofico. Da qualche anno, però, questa tendenza si è invertita a partire dalla constatazione che figure illustri del pensiero correvano in massa alle sue lezioni sulla Fenomenologia dello spirito.
In effetti, la capacità di commento di questo autore, la lucidità, a tratti l’ossessiva capacità di sintetizzare, schematizzare, riassumere e ri-raccontare sistemi di pensiero (senza però rinunciare a inoculare la propria Weltanschauung sottopelle al commento), ne rende ancora vivo il lavoro, come se in effetti fosse l’opera di un contemporaneo più vicino a noi di quanto non sia.
In tempi di “populismo mediatico”, come lo ebbe a definire Umberto Eco, La nozione di autorità è ancora un efficace vademecum per orientarsi nel groviglio di una fenomenologia dell’autorità sempre più complessa, sempre più sfumata, deformata dai sotterfugi della comunicazione politica. Basta accendere la televisione per domandarsi quale tipo di Autorità eserciti chi gestisce il potere.
Per Kojève ci sono quattro teorie fondamentali sull’Autorità: “la teoria teologica o teocratica: l’Autorità primaria e assoluta appartiene a Dio” (p. 13), “la teoria di Platone: l’Autorità («giusta» o «legittima») si fonda su ed emana dalla «Giustizia» o «equità»” (p. 14), “la teoria di Aristotele, che giustifica l’Autorità con la Saggezza, con il Sapere, con la possibilità di prevedere, di trascendere il presente immediato” (ibidem) e infine “la teoria di Hegel, che riduce il rapporto dell’Autorità a quello del Signore e del Servo (del Vincitore e del Vinto)”.
Quindi il Padre (che darà non poco da pensare ai lettori di Lacan), la Legge o il Giudice (su cui già Deleuze si riservò di fare “ironia” e “umorismo” in Il freddo e il crudele), il Capo (che nella sua componente teleologica riserva echi che evocano la definizione di etica per Ricoeur) e il Signore (che il nostro non manca di ampliare magistralmente, rimproverandone a Marx la sottovalutazione).
In effetti, però, in queste teorie sembrano esserci pochi addentellati nel nostro presente. Sembra di essere ancora nei confini dell’abrégé accademico. In realtà, basta solo osservare con attenzione e gli addentellati fioccano.
Al Padre corrisponde una Causa, essendo connesso al concetto di “generazione” (quindi l’autorità dei vecchi sui giovani, dei morti sui vivi per testamento, dell’autore sull’opera, dei “padri nobili” di questo o quel partito, etc.), psicologicamente è inevitabile pensare a un certo ricatto generazionale con cui l’Italia si misura continuamente nel parlare delle colpe della gerontocrazia, dei baby-boomers o delle generazioni perdute. A partire da questa categoria sarebbe possibile porre una serie di interrogativi pregnanti su chi e perché debba guidare una certa comunità.
Il Signore è tale per il Rischio che si è assunto (il nobile sul plebeo, il militare sul civile, l’uomo sulla donna, etc.). Il collegamento coi golpe può essere molto immediato, ma non è altrettanto evidente la figura del capitano d’industria, dello speculatore, dell’imprenditore che – a seguito della lotta economica – esce vincitore sui concorrenti e diventa de facto un sovrano?
Il Progetto-previsione determina il Capo (il Duce, il Maestro, il Dotto, il Tecnico, l’Indovino, il Profeta, etc.) e ne forgiano la guida. Non dobbiamo aggiungere molto, visto che già Kojève ha menzionato il Tecnico.
Infine il Giudice deve trovare l’ardua via della Giustizia e dell’Equità (l’Arbitro, il Controllore, il Censore, il Confessore, il Giusto, etc.). I direttorii rivoluzionari, ma perché non certi giornalisti, che dalla loro scrivania – più che i fatti – descrivono categorie morali che dividono fra onesti e disonesti personaggi pubblici e comportamenti privati?
E il passaggio “Negli Stati a «poteri» separati il «potere» legislativo tende a indebolire, se non addirittura ad annullare, il «potere» esecutivo, mente quest’ultimo cerca – con meno «convinzione» poiché detiene di fatto il potere reale – di rendere illusorio il «potere» legislativo. La separazione di questi due «poteri», quindi, conduce in genere all’eliminazione di uno dei due, cioè a una nuova amputazione dell’Autorità politica, nella misura in cui uno dei due non riesce a «captare» l’altro, diventando un «potere» complesso, cioè non «separato»” (p. 91) non potrebbe passare per il fondo di un politologo sulla prima pagina d’un giornale di oggi?
Ma allora cos’è l’Autorità? Secondo Kojève essa esiste solo in presenza di un movimento, nel senso che si può applicare solo su qualcosa che può reagire in funzione del simulacro – cosa o persona – che rappresenta l’Autorità stessa. “L’Autorità appartiene a chi opera il cambiamento […] è essenzialmente attiva” (pp. 19-20). L’Autorità non conosce opposizione, ma ciò comporta la possibilità di un’opposizione, che viene spontaneamente accantonata da chi la subisce, una “rinuncia cosciente e volontaria alla realizzazione di questa possibilità” (p. 20). In ciò consiste anche la sua socialità.
Per di più, e qui l’analisi si fa per certi versi sconvolgente, “non soltanto esercitare un’autorità non è la stessa cosa che usare la forza (la violenza), ma i due fenomeni si escludono a vicenda. In generale, non bisogna fare nulla per esercitare l’autorità” (p. 22). Il potere subdolo di, per esempio, innescare un comportamento auto-censorio sui sottoposti, elemento sicuramente non estraneo all’espressione dell’autorità anche oggi, al di là di ogni barriera legale visto che “si può dire che la Legalità è il cadavere dell’Autorità; o, più esattamente, la sua «mummia» – un corpo che si conserva pur essendo senza anima e senza vita” (p. 24) e che l’Autorità di per sé tale esclude in quanto opposizione.
Non sfuggirà che Kojève si cura così di escludere un’assimilazione di Autorità e Divinità, dato che “la definizione del Divino differisce da quella dell’Autorità” (ibidem) per via dell’impossibilità di opporsi al volere divino: l’Autorità non esclude la possibilità di opporsi, a patto che si resti nel possibile senza sconfinare nel fattuale. Questo stante “a costo di dire che è un fenomeno (sociale) essenzialmente umano” (p. 25). Tremendamente autosuggestivo, ci sarebbe da aggiungere.
Questo campionario è di lampante sovrapponibilità al linguaggio che parla tutt’ora l’Autorità, la sua bussola non è per nulla smagnetizzata. Merito del fatto che, come Hegel, anche Kojève fece un’astrazione a partire però da ciò che vedeva. Se Hegel, come nota Kojève alla quinta rilettura della Fenomenologia, parlava in realtà di Napoleone, così lui si trova in una condizione storica altrettanto ispiratrice. Non è infatti un caso che la prima delle Appendici del volume sia dedicata al Maresciallo, un Maresciallo che vinse a Verdun, quindi pur non nominato il nome Pétain fa il suo ingresso nella filosofia passando per la storia.
E non poteva essere diversamente, visto l’interesse di Kojève per i movimenti storici. In coda a La nozione di autorità è possibile scoprire nella nota del curatore del volume – Marco Filoni – come, benché il nostro definisse la storia “il lavoro del negativo”, non si sia mai tirato indietro dal frequentarla. E questo elemento non è ornamentale.
Ma non si conclude con una puntigliosa presenza nell’odierno il potere di queste pagine asciuttissime. I dubbi e le paure che insinuano, elaborate col polso di una Shirley Jackson, gettano ombre sul futuro, in particolar modo su un futuro che ci sembra quasi di poter toccare con mano.
In poche righe l’autore distrugge una delle rocce più solide della nostra costruzione costituzionale – la separazione dei poteri – dicendo: “la teoria, la pratica e il semplice buon senso concordano qui nel respingere questa esigenza «costituzionale». Prendere sul serio la separazione dei «poteri» legislativo ed esecutivo equivarrebbe a istituire un «potere» tenuto a prevedere tutto senza potere nulla, di fronte a un altro «potere» tenuto a potere tutto senza prevedere nulla. In caso di conflitto fra i due (e la «separazione» ha senso soltanto se si ammette la possibilità di un conflitto), il «potere» legislativo sarebbe immediatamente annientato dal «potere» esecutivo, e lo Stato cesserebbe di esistere nella forma data” (p. 91).
Non è possibile, specialmente per noi, qui e oggi, non misurarci col pensiero di Kojève e in modo particolare con La nozione di autorità, specialmente se – malgrado la sua lontananza fisica – è stato in grado di antivedere con tale pregnanza la crisi di un’Autorità politica globale, come l’ha definita, impotente dinanzi alle istanze sempre più stratificate che le vengono poste. E non solo in termini di legittimità.
Cosa pensare se con parole così esatte Kojève descrive l’inceppamento del meccanismo politico e, a breve, specifica che la separazione dei poteri “non significa che le Autorità debbano restare «divise» anche dopo aver realizzato tutte le loro possibilità implicite” (p. 99)?
L’analisi eretta non è aggirabile e funge da pungolo a chiunque voglia ancora domandarsi la natura e il destino di ciò che chiamiamo “potere” e di ciò che chiamiamo “Autorità”.